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IO E TOMMY – i più difficili anni della mia vita salvati da una gatta

IO E TOMMY – i più difficili anni della mia vita salvati da una gatta

1963-1980:  la storia di diciotto difficili anni della mia vita salvati da diciotto anni di vita della mia gatta.

Nel più bel sogno ci sei solamente tu…/ sei come un’ombra che non tornerà mai più...”
La vecchia Canzone mi gira e rigira nella testa e la nebbia lentamente si dirada.
Le cupe sirene delle navi svaniscono e appare nella mente una casa con giardino dalla quale, guardando a est, si vede il mare.
Una villetta tardo-liberty al Lido di Venezia tra altre villette “estive” e al confine con il bel parco di una molto più grande delle altre, che chiamavano “Villa Marzotto”.

Lido casa col mare dallaltoAvevo 10 anni.
Un giorno di inizio estate la custode della villetta confinante alla nostra chiamò me e mia sorella mentre stavamo giocando in giardino e ci mostrò quattro o cinque gattini che avevano da poco aperto gli occhi chiedendoci se ne volevamo uno perché doveva “butarli in canal”.
Fino a quel momento l’unico animale “da compagnia” che avevo avuto era stata Trudy, una tartaruga gialla che mi aveva regalato mio padre e che un giorno era scomparsa scavandosi una buca chissà dove per svernare; ero riuscito ad affezionarmi anche alla tartaruga e ci avevo pianto, ma non avevo avuto poi un grande rapporto con quella bestiola. In fondo comunicava abbastanza poco sebbene la prima volta che cercò di nascondersi per svernare e non la trovavo più, concentrandomi sulla sua immagine in un angolo del giardino dove nessuno mi vedeva, e ripetendomi continuamente “Trudy torna” a un certo punto me la vidi venire incontro.
Così ero tutto preso dalla novità e dalla voglia di avere un gattino, tanto che avevo sorvolato sulla fine terribile che gli altri gattini stavano per fare ed ero andato subito a chiedere a mia madre se potevamo prenderne uno.
Mia madre all’inizio fece molte resistenze ma poi, non so come, riuscii a convincerla: mi disse “lo prendiamo ma purché sia un maschio”.
Tornai di corsa dalla signora e da mia sorella, che aveva sei anni, e comunicai la decisione di mia madre. La signora guardò e riguardò il posteriore dei gattini e poi ci disse “ve piase questo?  ‘sto qua el se un masscetto”.
Io avevo già adocchiato proprio quel gattino quando ce li aveva mostrati e sicuramente la scaltra custode se n’era accorta, così la ringraziai e mi portai a casa il gattino bianco e grigio.
Quando mia madre lo vide, invece di dire che le piaceva come io speravo, esclamò inorridita “mariavergine! è ancora da latte!” e poi ci spiegò che era ancora tanto piccolo che doveva prendere il latte da sua mamma e non mangiava, così bisognava ridarlo alla custode.
Ma a questo punto mi tornò in mente la fine che gli aspettava e non mi arresi.
Chiesi a mia sorella di tirar fuori tutti i giochi delle bambole ricordandomi che forse c’era un biberon; e c’era ma era veramente molto piccolo. Convinsi anche mia sorella, che per fortuna voleva anche lei il gattino, a usare il biberon per dare del latte al gattino che nel frattempo miagolava da spezzare il cuore e noi ritenevamo che lo facesse perché aveva fame. Messo dentro il poco latte che ci stava, provai a darglielo da bere spremendoglielo in bocca dal davanti, come faceva mia sorella per finta con le bambole, ma gli uscì tutto fuori e si leccò un po’ solo quello che aveva sul naso.
Naturalmente non sapevo che è quasi impossibile riconoscere il sesso dei gatti così piccoli, né sapevo come gli si dà da bere, né altro sui gatti. Ero alla mia prima volta.
Quelli che avevo visto più da vicino fino a quel momento erano i gatti che giravano a casa dei miei nonni in campagna ed erano semi-domestici, nel senso che entravano in casa per chiedere il cibo e per mettersi a dormire nei posti più incredibili ma la sera uscivano e per me bambino “scomparivano”. Erano tutti gatti adulti e il cibo che gli veniva dato erano i budelli dei salami, qualche “culetto” di insaccato, cioè la parte terminale o iniziale, qualche pezzo di pollo come il collo, le creste, le zampe, e anche qualche pezzo di polenta. Mangiavano tutto molto avidamente come fossero sempre affamati, sebbene la scena si ripetesse a pranzo e a cena ogni giorno.
Solo alcuni di questi gatti si facevano accarezzare e molto raramente, ma a me piaceva guardarli, studiarli.
In campagna i miei zii avevano anche qualche cane, ma i cani mi facevano paura, mio padre aveva paura dei cani e in qualche modo me l’aveva trasmessa; tuttora anche se non ho più paura, con i cani non mi sento a mio agio, non ho feeling, sono un gatto e i cani lo sentono.
Mia madre era cresciuta con quel tipo di gatti che c’erano dai miei nonni, i suoi genitori, e non sapeva neanche lei come tenere in casa un gattino ancora da svezzare, né comunque come tenerci un gatto. Credeva che lo avremmo tenuto fuori in giardino.
Ma il mio senso di protezione e l’istinto materno di mia sorella esigevano che il gattino fosse tenuto dentro in casa con tutti i riguardi, soprattutto dal momento che eravamo convinti che stesse rischiando di morire di fame. Smetteva di piangere e si calmava solo quando lo prendevamo in braccio e lo accarezzavamo, ma chissà perché non ci passava proprio per la testa che piangesse per la mancanza della madre e dei fratellini; non potevamo permetterci di pensarlo: era un pericolo di cui noi stessi avevamo un terrore troppo grande.

Io e mia sorella avevamo fatto molti tentativi per dargli il latte con quel mini-biberon e alla fine, da soli, eravamo riusciti a capire che occorreva infilarglielo in bocca di lato tenendogli ferma la testolina e spremendo il latte molto lentamente. In quel modo riusciva a berlo.
Appena riuscì a bere un po’ di latte fece le cacche e ci fu un nuovo dramma.
Per noi bambini non c’era alcun problema se aveva fatto le cacche in camera nostra, avremmo pulito noi e non avevamo tappeti pregiati. Mia madre però non era molto d’accordo. Insisteva che il gattino doveva restare fuori.
Allora noi inscenammo pianti e disperazione in un incredibile braccio-di-ferro.
Mio padre rincasò dal turno di notte il giorno dopo e dovette accettare la situazione che trovò.
Però ebbe l’idea di usare un catino con la segatura come WC del gatto, forse l’aveva sentito da qualche suo collega, e risolse così la tensione per via della pulizia alla quale mia madre, come la maggior parte delle casalinghe di quegli anni, era morbosamente e televisivamente attaccata.
Mio padre non era particolarmente amante degli animali e non si affezionò mai a Tommy; manteneva un atteggiamento di benevola tolleranza, come se la presenza del gatto fosse solo una concessione che faceva a noi bambini.
Immagino adesso che qualche suo collega poco più anziano di lui gli avesse detto che i bambini traevano qualche vantaggio dall’avere un animale in casa e imparavano ad accudirlo, a pensare ai suoi bisogni, favorendo così lo sviluppo del “senso di responsabilità” che era invece la cosa a cui a quei tempi era morbosamente attaccata la maggior parte di quelli come mio padre.
Un paio di anni dopo lo vidi dare un calcetto sul culetto di Tommy, senza farle del male, solo per farla uscire dalla cucina, e mi risentii moltissimo con lui per quel gesto. Lui mi rispose che non pensava di fare niente di male perché per lui era così che si trattavano i gatti, ma senza fargli del male…
Fu la prima volta che pensai che tra me e lui ci fosse una distanza incolmabile. E a dodici anni è dura.
Alla fine io e mia sorella avevamo vinto su tutto il fronte e il gattino era entrato a far parte ufficialmente della famiglia.
Mia madre era una sarta: prima di sposarsi lavorava in una sartoria di abiti di lusso del Lido, dopo sposata faceva la casalinga e lavorava in casa per la stessa sartoria.
Mio padre era un maresciallo dell’Aeronautica Militare, più per necessità che per scelta perché in cuor suo avrebbe voluto avere un negozio, cosa che realizzò dopo essere andato in pensione.
Io ero cresciuto un po’ schivo e con l’epiteto di “guastafeste” affibiatomi da mio padre come una spada di Damocle.
Mia sorella invece era coccolata e vezzeggiata, soprattutto da mio padre.
Negli anni successivi, quando partivamo per la vacanza con la nostra seicento stracarica, mio padre era solito dire “la famiglia Brambilla va in vacanza!”. Quello era il suo riferimento culturale per la famiglia.
Una volta adottato il gattino, dovevamo trovargli un nome. Non so più quale dei miei genitori ci vietò di dargli un nome o un diminutivo gatto Tom“umano” come “Nino” o “Nani”. Mia sorella proponeva solo nomi da bambole o robe come “Ciccino” e a me non veniva in mente niente.
Chiesi al mio amico di quel tempo, che era il mio compagno di scuola Walter, di venire a vedere il mio nuovo gattino e in quell’occasione gli proposi anche la questione del nome. Walter mi rispose senza esitazione “se è un gatto maschio si deve chiamare Tom, come Tom e Jerry”. Tom non mi suonava molto perché “non finiva” e lui allora mi disse “chiamiamolo Tommy” dato che era un gattino piccolo per cui andava proprio bene un diminutivo.
Io di Inglese non capivo ancora niente (si cominciava a studiarlo in prima media e io dovevo ancora iniziare quella classe) mentre Walter, figlio di un giornalista e con una sorella già alle scuole superiori, era molto più avanti. Così il gattino si chiamò Tommy.
Comunicai la notizia a tutta la famiglia e nessuno fece obiezioni. Il fatto che il nome lo avesse messo Walter spianava qualsiasi problema perché proveniva da una famiglia molto più ricca e colta della nostra.
Nel frattempo avevamo risolto la faccenda del biberon troppo piccolo facendoci comprare una boccettina di plastica contenente un liquido per bambini dolce e colorato, cose che per fortuna i miei di solito non ci compravano più che altro per risparmiare, boccetta che aveva un capacità adeguata e finiva con una specie di succhiotto da cui il liquido veniva fuori lentamente spremendola.
Mia sorella vuotò il contenuto dolciastro nella sua piccola boccuccia e io lavai bene la boccettina e la riempii di latte. Funzionava a meraviglia. Avevo imparato bene a dare il biberon a Tommy e praticamente lo facevo sempre io.
Così Tommy cresceva. La sua forza vitale aveva vinto e riusciva a nutrirsi abbastanza anche col latte vaccino.
Nella nostra villetta, al piano seminterrato che una volta era l’appartamento della servitù, viveva una signora anziana con la figlia; le due non avevano la televisione e ogni tanto in occasione di programmi particolari, credo sceneggiati a puntate, venivano a vederla da noi.
Una di quelle volte la figlia della signora anziana si incuriosì del gattino che le stavo mostrando, lo guardò bene e mi disse “varda che’l se ‘na femena”. Rimasi folgorato: il gattino maschio in realtà era una femminuccia!
Mia madre disse subito qualcosa a riguardo a eventuali gattini che non doveva avere e la signora rispose che bisognava tenerla chiusa in casa quando sarebbe andata in calore. Io ci capivo poco, mi impuntai solo sul fatto che ormai ce l’avevamo e nessuno ce lo avrebbe tolto, maschio o femmina che fosse.
Rispondeva già quando chiamavamo Tommy e decisi di lasciargli quel nome, tanto non era italiano e, secondo me, non si capiva se era maschile o femminile.
Ne parlo al plurale, condividendo Tommy con mia sorella, ma era chiaro che Tommy era già “mia”, cioè me ne sentivo responsabile io e di fatto il suo riferimento principale ero diventato io.
Non troppo lontano da casa c’era una falegnameria dove andavo regolarmente a chiedere la segatura per la lettiera. Avevamo sabbia dappertutto, vivendo praticamente su un’isola di sabbia, ma mio padre aveva detto segatura e segatura rimase per un bel po’.
Io buttavo quella vecchia in un sacchetto da portare nei rifiuti e mia madre lavava il catino. I compiti che non facevo io rispetto a Tommy erano solo questi: lavare il catino e comperare le frattaglie dal macellaio.
Nel 1963 non c’era ancora niente in vendita specificamente per gli animali. Né lettiere, né croccantini, né scatolette. Ci si doveva arrangiare per tutto.
All’inizio, oltre al latte, ogni tanto provavo a dare a Tommy qualche pezzo di pollo o di carne in scatola togliendoli dalle mie razioni.
Dopo un po’ di tempo iniziò a mangiare anche qualche pezzo di carne e alla fine manifestò una certa insofferenza per il biberon e per il latte.
Mia madre, scoperto che la gattina era svezzata, chiese al macellaio cosa poteva dargli. Il macellaio le disse che sarebbe andato bene il polmone dato che lo dava già a qualche signora anziana che dava da mangiare ai gatti, anche al Lido c’erano molte “gattare”.
Così in casa si prese l’abitudine di dargli il polmone bovino che era una frattaglia, tagliata sommariamente in pezzi, che il macellaio dava gratuitamente a mia madre quando comprava della carne. Durava per un po’ in frigo e a Tommy sembrava piacere molto.
Venne su a polmone bovino che conteneva comunque Taurina e quindi in qualche modo, senza sapere niente, avevamo fatto scelte abbastanza compatibili con l’alimentazione di un gatto.
Ogni tanto le davo anche qualche pezzo di pesce, ma cotto, prendendolo dal mio piatto, perché crudo non lo apprezzava molto. Adorava invece la gelatina della carne in scatola e, purtroppo per noi bambini, questo era il vero motivo per cui chiedevamo sempre più spesso di mangiare quel cibo-spazzatura che ai tempi era molto pubblicizzato in televisione.
Durante la prima media al mio affetto per Tommy si era aggiunta la prima cotta: mi ero perso per l’amichetta di una mia compagna di classe. Paola era molto più sveglia di me, ma per un po’ di mesi le ero andato bene come boy-friend perché lei parlava e parlava raccontandomi le sue fantasie e io ascoltavo i suoi sogni senza dire niente, facendo finta di credere che fosse tutto vero.
Sapevo che erano sogni ma ero a mia volta incantato da questa ragazzina bionda che stravedeva per i “capelloni” e amava i Beatles come me. Facevamo lunghe passeggiate insieme nei pomeriggi, o dei lunghi giri in bicicletta con la scusa di andare a trovare sua nonna che stava agli Alberoni, all’altro capo dell’isola, ma il massimo che riuscii a fare fu di tenerla per mano e poggiare le mie labbra sulle sue, tenendole chiuse.
Ero timido.

Lei metteva delle “minigonne” cioè degli abitini un po’ sopra il ginocchio, e io giravo ancora con i calzoncini corti che per mia madre avrei dovuto portare probabilmente fino ai trent’anni.
Non potevo neanche farmi crescere un poco i capelli perché per mio padre era una cosa severamente proibita.
Credo che suscitassimo tenerezza negli adulti che ci vedevano, ma paradossalmente per le relazioni con i miei compagni di scuola questo mio interesse precoce per l’altro sesso fu un grosso problema: mi accusavano di stare sempre con le femmine e mi prendevano in giro. Mi dicevano “ti se sempre co’ e fie, ciò, no ti sarà miga recia?” (sei sempre con le ragazzine, non sarai mica gay?) e io ne soffrivo perché mi sentivo dileggiato, ma poi riflettevo: che dicessero pure, mi sembravano ancora dei bambini, mentre a me piacevano le ragazzine come a quelli più grandi. Qualche tempo dopo si sarebbero accorti del granchio clamoroso che stavano prendendo.
Mio padre aveva un amico con due figli maschi di cui uno mio coetaneo e uno un po’ più grande. Questo più grande, Claudio, era il mio modello: portava i capelli a caschetto, suonava la chitarra e parlava di ragazze con studiata saccenteria. Ascoltava i Rolling Stones di cui era un fanatico ammiratore e mi trattava con superiorità perché io invece ero un pivello che “teneva” per i Beatles che lui considerava dei “damerini”.
Londra. In quel periodo tutto veniva da Londra. Tutto quello che ci piaceva che era anche tutto quello che non andava bene ai nostri genitori.
A undici anni io e Paola ci consideravamo già dei “teenagers” anche se la nostra età non finiva ancora per “teen”. Eravamo precoci.
Lei viveva con la madre, una zia ventenne e due sorelle più giovani. Del padre non avevo osato chiederle.
Io avevo Claudio che suonava i Rolling con la chitarra e Kiki, la sorella di Walter, che poteva comprarsi tutti i dischi che voleva e ogni tanto ci portava in gelateria dove si trovava con i suoi amici del liceo che parlavano di musica, di cantanti, di cinema e di attori. Non so Walter, ma io in quelle occasioni ero come “ipnotizzato”. Assorbivo tutto come un registratore, come una spugna, e poi lo raccontavo a modo mio a Paola. Era la mia maniera per risultarle interessante.
Come se avessero intuito perfettamente quali sono i momenti peggiori per sradicare un figlio cambiando città, i miei genitori proprio in quel momento decisero di trasferirsi a Verona nella casa di mio padre.
Così quell’estate, finita la prima media, mi piombò addosso il fatto che avrei dovuto lasciare il Lido, la casa e Paola. Fu una bella botta.
Paola era in vacanza da qualche parte con sua mamma e le sue sorelle. La mia disperazione per il trasferimento, che non potevo esprimere a nessuno, mi fece attaccare molto a Tommy che mi sembrava essere l’unica a capirmi. Mi guardava triste forse presentendo quel che ci aspettava.
Il risentimento per i miei mi portò a stare molto per conto mio a disegnare e a leggere ma sempre con Tommy, e a non partecipare per niente ai preparativi del trasloco.
Tommy stava volentieri con me, sembrava che mi capisse veramente.
Un giorno di metà settembre mia madre mi precisò la data della partenza dicendomi anche che tutte le mie cose “vecchie” come i giochi e le cataste di albi di Topolino accumulate in alcuni anni e per me “sacre” erano state date via a “bambini poveri” e non potevo protestare perché non mi ero preoccupato di curare cosa volevo portare con me e così avevano dovuto fare loro anche quel lavoro.
I miei fumetti! Intuii subito che i “bambini poveri” in questione dovevano avere qualcosa a che fare con i bidoni della spazzatura ma non volli crederci. Se negli anni successivi avessi avuto quei “Topolino” avrei potuto venderli alle bancarelle di libri usati di Piazza Erbe a Verona guadagnandoci qualcosa.
Inoltre stavo chiedendomi come mai Paola non si fosse fatta più viva.
Noi non avevamo il telefono: eravamo andati ad abitare in quella casa nel settembre del 1959 e avevamo avuto subito tutto: televisore, frigorifero, lavatrice, ma il telefono, chissà perché, quello no. Mio padre probabilmente preferiva non farsi trovare dai suoi capi quando era a casa dal lavoro.
Per vederci, uno dei due doveva andare materialmente a casa dell’altro e io da Paola non c’ero più andato, sconvolto com’ero dal fatto del trasferimento.

Un pomeriggio mentre stavo uscendo per andare a prendere la solita scorta di segatura per la lettiera, la vidi venire nella mia direzione assieme a due ragazzi con i capelli lunghi, un po’ più vecchi di me. Era chiaro che stava passando di lì intenzionalmente per farsi vedere da me perché abitava in tutt’altra zona e la mia via non era “di passaggio”. Ci rimasi malissimo ma presi il coraggio di avvicinarmi un po’ pur sotto lo sguardo infastidito e sprezzante dei due “capelloni”. Non riuscivo a parlare.
Lei guardando adorante i suoi due accompagnatori sparò che erano i suoi nuovi amici.
Capii che per me non c’era più posto nella sua vita e le dissi che stavo per trasferirmi a Verona con i miei.
Lei ci rimase male, chissà, forse la sua era solo una “bravata” per dirmi “svegliati, a me piaceresti così”, e non si aspettava un vero addio.
La salutai facendole capire che era l’ultima volta che ci vedevamo e i suoi amici la trascinarono via.
Corsi a casa e mi misi a piangere a dirotto sulle scale esterne. Tommy arrivò come per magia a strofinarsi e si accoccolò vicino a me. Mi calmai e dopo un po’ pensai che stando così le cose era proprio meglio andar via: ce l’avrei fatta comunque perché avevo Tommy.
La gelata peggiore però arrivò quando venne il giorno della partenza e mia madre mi disse “non vorrai mica che portiamo anche la gatta! I gatti stanno dove c’è la casa, non si affezionano alle persone, e dovrà restarsene qui, tanto da mangiare gliene daranno le signore del seminterrato.”
Mi salì una rabbia tremenda, fredda, e le risposi con una fermezza quasi da adulto “se non viene la gatta, non vengo nemmeno io”.
Mollai in terra il mio bagaglio, presi in braccio Tommy e mi sedetti sulle scale convinto del mio bluff.
Mio padre era andato via presto la mattina col camion dei traslochi, mentre io, mia madre e mia sorella dovevamo andare a Verona con i mezzi pubblici. Ci andavamo spesso per trovare lo zio Pino, fratello di mio padre. Non avevamo ancora un automobile, al Lido bastava la bicicletta.
Per andare dallo zio si prendeva il “motoscafo” dal Lido alla stazione e poi il treno fino a Verona e poi l’autobus fino al Ponte Pietra. Noi la strada la sapevamo, ma per un gatto era davvero una specie di viaggio-avventura.
Mia madre aveva in mente l’orario del treno e se perdevamo quel “motoscafo” perdevamo anche il treno e saremmo arrivati a Verona la sera troppo tardi. Così decise, saggiamente, di lasciar perdere e di sbrigarsi. Prese una sua vecchia borsa e mi disse di metterci dentro Tommy per portarmela con me. Ai tempi non c’erano neanche i trasportini, o almeno noi non ne sapevamo ancora niente.
Era una borsa da donna abbastanza capiente e con una chiusura efficace che però lasciava passare l’aria, per cui Tommy ci si adattò e stette buona. Portai la borsa in braccio camminando fino all’imbarcadero ma poi dovevo fingere che fosse un normale bagaglio.
Nel “motoscafo” mi ero seduto e tenevo la borsa con Tommy in grembo.
Alla stazione mi accertai che Tommy stesse bene, mi sembrava di sì per cui salimmo sul treno e iniziammo il viaggio sempre con me che tenevo la borsa in grembo. Dopo un po’, forse per il caldo, la poggiai sul sedile tra me e mia sorella. Tommy sembrava dormire e io aprii la chiusura della borsa in modo da farle arrivare più aria. Arrivò il controllore e proprio in quel momento Tommy si mise a miagolare a tutta voce. Istintivamente aprii la borsa e la accarezzai cercando di rassicurarla. Il controllore chiese retoricamente se avevamo un gatto con noi e mia madre rispose, scusandosi, che i bambini non avevano voluto lasciarlo a casa e doveva portarselo dietro. Il controllore non fece una piega e chiese il biglietto del gatto. Mia madre impallidì, probabilmente non sapeva che si poteva portare un gatto in treno, che bastava pagargli il biglietto, per cui stava pensando ad un viaggio in cui Tommy sarebbe stata una clandestina.
Non avendo il biglietto il controllore ce lo fece lì per lì con una bella sopratassa e si raccomandò che il gatto non desse fastidio agli altri passeggeri; erano scompartimenti da otto persone però per fortuna oltre a noi c’erano, mi pare, solo due signore. Queste persone presero bene la presenza di Tommy e la potei far uscire dalla borsa dove, probabilmente, era sempre stata buona perché pur di non essere lasciata da sola avrebbe fatto qualsiasi cosa per assecondarci, ma l’accorgersi di non essere più poggiata su di me l’aveva impaurita e spinta a farsi sentire da noi, e dal controllore. Da quel momento la tenni sempre in braccio e lei stava buona buona.
La scena più ridicola fu quando, usciti dalla stazione di Verona, montammo sull’autobus, o forse era una filovia, non ricordo.
C’era un autista davanti e un bigliettaio dietro su ogni mezzo. Mia madre disse subito al bigliettaio che avrebbe pagato il biglietto per il gatto, ma questa volta le fu risposto che non era previsto portare i gatti così, in braccio, per via della sicurezza degli altri passeggeri.
Io fui pronto a dire che l’avrei tenuta stretta e sarei rimasto in fondo, lontano dai passeggeri e dal guidatore.
Tommy sottolineò le mie parole con un forte “mieeee!” che pareva proprio voler dire “è così, fidatevi” e in risposta alla gatta il bigliettaio esclamò “e va ben, te pagarè el biglieto anca ti, gato!”.

Capii che dietro l’esprimersi in quel dialetto che mi sembrava così rozzo ci poteva essere un cuore anche nei veronesi.
Una volta scesi ci aspettava un po’ di strada a piedi in salita. La percorsi tutta con Tommy in braccio fino alla nuova casa dove nel frattempo avevano già scaricato i mobili e gli scatoloni. Mio padre ci aspettava perché dovevamo andare a cena da mio zio, ma io mi rifiutai dicendo che stavo lì con Tommy perché ero stanco. In realtà non volevo lasciare sola la gattina appena arrivata in una casa nuova e la osservai girare e annusare tutto.
Era già da mesi cTommy 1969 a VR 1he le parlavo come se potesse capirmi e mi ero convinto che mi capiva davvero. Le dissi che si cominciava una nuova vita e poi mi sdraiai sul letto che mia madre mi aveva indicato essere il mio e con Tommy appoggiata addosso dormii fino al giorno seguente. I miei al loro ritorno non avevano osato svegliare né me né la gatta e io non avevo sentito niente di tutto il rumore che avevano fatto.
A Verona trovai un sacco di bambini e di ragazzi, molti della mia età.
Al Lido abitavamo in una zona di ville utilizzate quasi tutte come seconde case estive dove c’erano poche famiglie stabilmente residenti e queste avevano pochi bambini per cui i miei compagni di scuola abitavano tutti ad una certa distanza da me, anche qualche chilometro: per andare a casa di Walter mettevo tre quarti d’ora a piedi.
Nella nuova situazione, pur essendo una zona di case e pochi palazzoni, c’erano un sacco di famiglie con figli di tutte le età. Scegliendo solo tra i miei coetanei ne trovai ben quattro e diventammo subito amici.
Era il 1965 e nelle poche case che compongono l’isolato dove ero andato ad abitare c’erano ben tre “complessini” musicali di ragazzi delle scuole superiori che provavano nei garage quasi tutti i pomeriggi; siccome si sentivano reciprocamente, e quindi si disturbavano suonando, si davano i turni con la precedenza al complesso di quelli più vecchi che si chiamavano “Le Scosse”.
Non mi mancava quindi né la compagnia né la musica. Il cambiamento era stato brusco perché al Lido vedevo un po’ di gente solo d’estate, ma in quel breve periodo della “stagione” i juke-box suonavano a tutto volume nei bar del Viale Grande e a me e Paola bastava sederci nei paraggi, senza dar troppo nell’occhio, per ascoltare musica per ore mentre parlavamo dei nostri sogni.
Qui invece c’era sempre un sacco di gente tutto l’anno, meno che in agosto. A ogni angolo c’era un gruppetto di ragazzi, ogni gruppetto un’età, e come musica oltre ai complessini c’era occasionalmente anche qualcuno che portava in strada il “mangiadischi” per ascoltare le canzoni “proibite”, praticamente quelle che i genitori non sopportavano di sentire in casa, Beatles e Rolling Stones in primo luogo, ma anche molto De Andrè, che prima non avevo mai sentito (ricordo che amavo in particolare Carlo Martello censurata per la parola “puttane” e La guerra di Piero perchè antimilitarista). In quei momenti in cui gracchiava il mangiadischi io e i miei amici tenevamo un religioso silenzio e ascoltavamo cercando di carpire i titoli e i nomi dei cantanti.
A scuola ero una frana. Nel quartiere non c’era una scuola media e i miei mi avevano iscritto all’ultimo dove c’era posto, quindi nella scuola più “popolare”, nella sezione peggiore.
Vomitavo sempre e avevo otto in condotta (con sette si era comunque bocciati). I trasferimenti sono traumatici anche in questo campo. Reggevo ogni angheria fattami dai compagni di classe e a volte cercavo di farne anche io peggio di loro.
Da bravo ragazzino di buona famiglia un po’ ingenuo come ero arrivato dal Lido, in pochi mesi di scuola a Verona ero diventato un “teppista esistenzialista”, come mi definivo senza sapere neanche cosa voleva dire.
I miei riferimenti erano i Mods inglesi e, sebbene non fosse il Mods mood, volevo vestirmi sempre di nero.
Ero finito in una classe di ripetenti, l’ultima sezione, la “I” (c’erano nove seconde…), dove erano quasi tutti più vecchi di me e provenivano da famiglie più “popolari”, quindi dovevo riuscire a difendermi in qualsiasi modo per sopravvivere.

Cominciai allora a manifestare una doppia personalità: a scuola mr. Hide e a casa dr. Jeckill.
Ai miei era difficile capire perché prendessi continuamente delle sospensioni e il preside li convocasse così spesso per questo.

Con Tommy però mi comportavo come sempre e la gattina dopo un po’ si era ambientata e girovagava nelle immediate vicinanze della casa. Ma non si allontanava mai molto.Tommy 1968 a VR in terrazza
Sia al Lido che a Verona era salita su alberi da cui avevo dovuto tirarla giù preparando scale e assi di legno: era l’unico problema che mi dava.
A Verona non c’era più la falegnameria vicina e quindi per la lettiera si passò alla sabbia in una bacinella di plastica. C’era ancora un discreto mucchio di sabbia da edilizia vicino al cancello dell’accesso ai garage, lasciato dai muratori per non so quale lavoro, e altri mucchi ce n’erano dalla parte verso la collina. Non facevo altro che andare con un sacchetto e una paletta a fare scorta.
Mia madre trovandosi senza amiche e senza il suo lavoro di sarta a domicilio aveva più tempo per dedicarsi a Tommy così le si stava affezionando molto e parallelamente aumentava invece il tempo che io vivevo fuori casa assieme ai miei nuovi amici.
Restavo sempre attaccatissimo a Tommy e lei quando facevo i compiti veniva sempre a mettersi vicino a me.
Anche se mia madre non voleva, la sera dormiva con me sul mio letto. Io e mia sorella avevamo una sola camera divisa in due da una libreria ma Tommy era praticamente sempre nello spazio riservato a me.
Tommy 1969 con Tiziana okMia sorella se ne interessava e la carezzava spesso, ma il legame più forte di Tommy era indubbiamente con me.

Pur uscendo e andando anche sulla strada, oltre che nella parte verde dietro casa, Tommy non correva molti rischi perché ai tempi nel quartiere c’erano pochissime auto.
Quando tornavo da scuola la trovavo sempre sulla vecchia radio a valvole che avevamo sopra al frigo in cucina, che restando accesa tutta la mattina per far compagnia a mia madre si scaldava parecchio.
Per me che sentivo così poca affettività dalla famiglia, Tommy era come una persona, un affetto talmente intenso che tuttora faccio fatica a spiegarlo.
Col tempo mi ero ambientato a Verona e stavo cogliendo tutte le opportunità che la città mi poteva dare e che al Lido difficilmente avrei avuto.
In quegli anni al Lido ci tornavamo ogni agosto per la vacanza al mare. I miei lo facevano per mantenere i rapporti che avevano là, io rivedevo Walter.
Affittavano un appartamentino e ci trasferivamo partendo con la seicento di mio padre carica di un sacco di bagagli sul portabagagli. Tommy stava sul sedile dietro, tra me e mia sorella. Nell’appartamentino poi stava un mese sempre chiusa dentro.
Sapendo che aveva bisogno di mangiare dell’erba ogni tanto io e mia sorella la portavamo in qualche aiola un po’ fuori mano tenendola con un guinzaglio molto lungo. Non tentava mai di allontanarsi da me e solo una volta prese paura di un cane che non avevamo visto arrivare e cercò di rifugiarsi nel Cimitero degli Ebrei. Mia sorella fermò il cane dicendo qualcosa al suo padrone e io riuscii a recuperare Tommy appena prima che entrasse nel cancello del cimitero…
Nel periodo del liceo il mio rapporto con Tommy rimase invariato, nonostante il Movimento Studentesco e le prime morose.
Avevo comunque un disperato bisogno della “mia” gattina.
Pur crescendo mantenevo questo affetto smisurato per Tommy che lei ricambiava facendosi sempre trovare lì magicamente quando tornavo a casa a qualsiasi ora e restando con me nei momenti di sconforto per le inevitabili delusioni amorose o le altrettanto inevitabili liti con i miei.
Alla fine del liceo mi arrivò un’altra botta: non contenti della prima volta, i miei genitori ci provarono anche una seconda volta.
Decisero di lasciare Verona per andare ad abitare a Mestre, città che mi era completamente sconosciuta e di cui sapevo solo che poco tempo prima ci si era trasferito anche Walter con la famiglia.
Forse pensando di far bene non mi dissero niente fino all’ultimo momento: credevo che sarei andato a studiare Architettura a Venezia facendo il pendolare e all’occorrenza fermandomi da qualche conoscente dei miei genitori che a sua volta si era trasferito dal Lido a Mestre.
La scuola di mia sorella cominciava il primo ottobre. A metà settembre mi dissero che alla fine del mese ci saremmo trasferiti e di preparare le mie cose che loro non potevano sapere quel che mi interessava portarmi dietro.
Fu uno shock non paragonabile a quello della prima volta: fu molto, molto più forte.
Questa volta avevo le relazioni di un ragazzo di diciannove anni, non quelle di un ragazzino di undici.
Avevo una ragazza molto bella con cui stavo da tre anni. Il trasferimento a Mestre fu un disastro emotivo totale. Quando glielo comunicai lei mi disse che il nostro rapporto non avrebbe potuto continuare. Le coetanee sono sempre molto più sveglie dei maschi ed evidentemente non me n’ero ancora convinto del tutto. Difatti dopo qualche mese che abitavo a Mestre Laura mi lasciò.
Il viaggio fu una replica di quelli che facevamo per andare in vacanza, con la seicento stracarica e tutta la famiglia dentro, ma il clima affettivo era gelido. Non parlai per tutto il viaggio, accarezzavo solo Tommy.
A Mestre non conoscevo nessuno e per mesi non riuscii a conoscere nessuno.
Andavo a Venezia all’università come un sonnambulo, senza capire dov’ero e cosa facevo.
Passavo lunghi pomeriggi da solo a leggere o a guardare nel vuoto ascoltando musica alla radio.
Ma non ero veramevia Baglioni Mestrente da solo perché Tommy mi stava sempre vicino.
Non era più possibile farla uscire da sola tra i palazzoni dove stavamo: lo avevamo fatto e avevamo visto che si era messa ad aspettare che le aprissimo il portoncino sbagliato, erano tutti uguali, palazzi e portoncini, all’inizio avevamo fatto fatica anche noi a memorizzare il nostro.
Tommy aveva nove anni ed era una bella gatta adulta, ma per me era sempre una “gattina”. Era buona e stava sempre in casa. Non tentava neanche di uscire. La portavo io sull’unica aiola ricavata tra i palazzi con un guinzaglio perché mangiasse l’erba. In quei momenti mi vivevo come se fossi da solo al mondo con l’unico affetto di Tommy.
Con la famiglia questa volta avevo tagliato definitivamente ogni rapporto affettivo: la seconda volta non gliel’avevo proprio perdonata. Senza nemmeno essere avvisato per tempo, per giunta.
Con la conoscenza che ho adesso credo di aver attraversato un periodo di depressione durato alcuni mesi dopo il trasloco.
Rabbrividisco ancora al ricordo di quei mesi appena arrivato a Mestre e non credo che l’università sarebbe bastata da sola a farmene uscire se non avessi sentito di avere un affetto, un calore, da Tommy e per Tommy. E’ buffo dirlo, ma l’unico calore umano che sentivo era quello della mia gatta.
Mia sorella l’anno prima era stata in collegio a Padova per frequentare la prima superiore, per lei arrivare a Mestre invece che tornare a Padova non cambiò molto la vita, anzi gliela migliorò per via che non era più dalle suore.
Tra di noi c’era poco scambio affettivo. Ci coprivamo a vicenda rispetto alle “proibizioni” dei miei, ma era più complicità che affetto.
Coi miei avevo chiuso. La morosa l’avevo perduta. Mi erano rimasti solo alcuni amici a Verona che andavo a trovare quasi tutti i fine settimana dormendo il sabato notte nei posti più incredibili, ospite di amici o di conoscenti dei miei amici. Mi aggrappavo a loro ma si capiva che non poteva durare, c’erano cento chilometri di mezzo e a quell’età si ha bisogno di una “compagnia” dove si vive.
Mi sentivo amato solo da Tommy. Ci credevo davvero. E forse era vero.Tommy 1968 a VR su letto
Mia madre non voleva che dormisse con me e chiudeva la porta della mia camera. Io fingevo di dormire e poi mi alzavo per andare ad aprirla; Tommy era là che mi aspettava e schizzava dentro. Mi mettevo a letto e subito dopo Tommy arrivava, alzava le coperte con la zampina per infilarsi sotto e dormire poggiata a me. A volte succedeva che la mattina dovevo andar via di corsa e lei restava a dormire ai piedi del letto sotto le coperte. Mia madre la cercava in tutta la casa e poi quando andava a rifare il mio letto la scopriva ancora lì che dormiva. Allora me lo faceva pesare dicendo che non era igienico che la gatta dormisse dentro al letto e io le rispondevo che la gatta era sempre in casa per cui allora non era igienico niente della casa. Mia madre lasciava perdere e la cosa si ripeteva regolarmente alla successiva occasione.
Di solito però se mi alzavo con calma anche Tommy si svegliava e la facevo uscire dalle coperte coccolandola, così mia madre la vedeva arrivare in cucina e poteva solo supporre che avesse dormito in camera con me, ma non poteva provarlo.
Il conflitto con mia madre aumentò anche per questo. Pensavo che volesse togliermi anche l’affetto della gatta. O meglio: lo temevo, ma sapevo che non ci sarebbe mai riuscita. Però solo il fatto di dover sostenere con mia madre una lotta anche su questa cosa mi procurava rabbia sufficiente per non riuscire più a sentire alcun affetto per lei.
La depressione iniziale a Mestre la superai sicuramente per la presenza e l’affetto di Tommy che, dandomi un po’ di calore, mi diede la forza di recarmi a trovare Walter e riavviare l’amicizia con lui. Poi riuscii pian piano a darmi degli obiettivi di studio e infine a trovare dei compagni di studio all’università.
Il mio torpore si risolse definitivamente con la necessità di dare alcuni esami in gruppo con altri studenti dove ciascuno faceva una parte, ad Architettura a quei tempi per alcuni esami si usava così, e quindi dovevo inserirmi e trovare delle relazioni all’università. Gli esami erano a luglio e arrivai a fatica a conoscere le persone giuste appena in tempo per prepararli.
E’ stata la fortuna della mia vita aver vissuto queste vicende personali nello stesso periodo in cui c’erano forti identificazioni sociali giovanili.
Quando ero alle medie mi identificavo con i Mods inglesi, al liceo ci fu il Movimento Studentesco, all’università il Collettivo studentesco e la contestazione della docenza accademica. Erano forti onde che se ci entravi ti portavano. Non potevi sapere dove, ma ti portavano avanti.
Fuori mi appoggiai a queste onde, ma in casa mi poggiavo sempre su Tommy.
Mi è difficile esprimere a parole quanto sia stato importante il rapporto con questa gattina in quegli anni così difficili della mia vita.
Aveva un’indole dolce: nonostante che i miei l’avessero sempre tenuta chiusa in casa nei periodi di calore non aveva mai mostrato aggressività o fatto qualche dispetto. Dire ai miei di tirar fuori i soldi per la sua sterilizzazione era fantascienza, quindi avevo dovuto accettare anche questo.
Credo che per una sorta di sesto senso Tommy sapesse che l’avevamo salvata dalla morte, toccata invece ai suoi fratellini.
Voleva bene a tutti in famiglia, a mia sorella, a mia madre che le dava da mangiare e anche a mio padre: ogni tanto andava a strusciarsi anche da lui sebbene lui non manifestasse mai un gesto affettivo nei suoi confronti.
Io ero però sempre il suo preferito e sicuramente lei sapeva che ero quello che aveva più bisogno di lei.
I miei si muovevano poco e quindi Tommy aveva il vantaggio che mia madre era praticamente sempre a casa; questo compensava al fatto che invece io stessi sempre più fuori, tornando solo per cena e poi uscivo ancora.
Però quando arrivavo Tommy era sempre nella mia camera, come se vivesse aspettandomi.
Dopo un certo tempo, tramite un conoscente dell’università, riuscii a trovare dei contatti anche nel quartiere dove abitavo: palazzoni per trentamila abitanti.
Ce n’era da fare di lavoro in un Comitato di Quartiere per uno studente di Architettura.
Così finalmente mi feci degli amici nel quartiere e la mia vita migliorò.
Dopo un altro po’ di tempo nella mia vita entrò una ragazza di Siena.autoritratto di Pier con Tommy 1976
Il rapporto con lei mi portò fuori casa per molti mesi. Poi tornai e Tommy era lì ad aspettarmi come fossero passati due giorni.
Di quel periodo ho conservato la fotocopia di un disegno che le avevo inviato assieme a una lettera: un mio autoritratto al tavolo di studio con Tommy sotto che si alza verso di me. Ogni volta che rivedo quel disegno mi commuovo.
Anche durante questo amore travolgente che, sebbene fosse durato solo un breve periodo, cambiò per sempre la mia vita, io ero tutt’uno con Tommy.
Ma anche questa storia d’amore a distanza portò liti e problemi con i miei.
Cercavo di “restare in casa” perché avevo capito che altrimenti non sarei riuscito a finire di studiare e avevo visto che quando non ci sono i soldi è dura. Certo facevo molta fatica a mantenere questo compromesso.
Quando scelsi di fare il Servizio Civile in alternativa al militare riuscii ad essere assegnato a Mira, un Comune vicino a Mestre. Avrei potuto quindi andare e tornare ogni giorno da casa, ma presi l’occasione che ci avevano dato un posto per dormire perché altri miei colleghi venivano da più lontano e dissi ai miei che dovevo restare a dormire nel posto assegnatoci dal Comune, anche se non era vero.
Non ce la facevo più a reggere la coabitazioene con i miei genitori e riuscii così ad uscire di casa tra l’ira di mio padre che avrebbe avuto la raccomandazione giusta per farmi fare una brillante carriera militare e la rabbia di mia madre che mi vedeva in coppia con una nuova ragazza, di Mestre, che non le piaceva e considerava fosse proprio sbagliata per me.
Se anche aveva ragione (adesso so che era ipersensibile e quindi “vedeva”) avrebbe dovuto evitare di dirmelo e di combattere anche contro questo mio rapporto affettivo perché il suo intervento fece sì che, per reazione, io rinsaldassi il rapporto con la ragazza pur “sentendo” che c’era qualcosa che non andava, e andassi a stare da lei.
Il mio ritorno a casa era ormai impossibile e dovevo tirare avanti in qualche modo senza soldi e senza lavoro. In questa vicenda finale della mia permanenza a Mestre per andare avanti nella mia vita adulta non potei più pensare a Tommy e in fondo al cuore me ne dispiaceva da morire.
Le poche volte che ero andato a casa dei miei a prendere delle mie cose o dei vestiti era l’unica persona che volevo incontrare e stavo lì un sacco di tempo a coccolarla, ma poi dovevo andare via.
Tommy 1975 a Mestre okMi ricordo un dispiacere grande ad andar via, ma anche una pulsione forte ad andar via, e questo significava per me stare in luoghi di vita dove non c’era posto per la mia gattina.
La sapevo al sicuro, con mia madre che la accudiva e che le si era affezionata. Cercavo di non pensarci.
Una volta tornai a casa per prendermi delle carte approfittando che c’era solo mia sorella, con lei i rapporti li avevo sempre mantenuti, e non trovai Tommy ad aspettarmi. Mia sorella mi disse mestamente che era morta.
L’aveva portata lei dal veterinario perché si erano accorti che stava male e aveva un rigonfiamento sulle mammelle. Il veterianario le aveva detto che era un grosso tumore in fase terminale e che avrebbe sofferto molto, perciò le consigliò di sopprimerla per darle meno sofferenza.
Lei aveva accettato. Poi l’aveva portata al negozio che in quegli anni da pensionato gestiva mio padre e gli aveva chiesto aiuto per seppellirla.
Mio padre, inaspettatamente, vedendola col corpicino di Tommy e sentendo che voleva seppellirla, l’aveva accompagnata a un’aiola vicina e con una paletta aveva scavato la piccola fossa sotto la siepe riscattandosi da tutti gli anni di indifferenza verso la povera gattina.
Era il 1980 e mi viene ancora da piangere adesso che lo scrivo dopo tutti questi anni.
Mi misi a piangere disperatamente, mi ripresi e poi ringraziai mia sorella di tutto questo.
Le chiesi perché non mi avesse avvertito e lei mi disse che io ero “distante” e c’era bisogno di decidersi subito.
So però che lo aveva fatto per risparmiarmi una forte sofferenza in un momento in cui io tentavo di metter su una vita autonoma dalla famiglia tra mille difficoltà e senza una lira.
Di questo le sono grato: non credo che avrei retto alla malattia e alla fine di Tommy stando fuori casa e in questo modo invece avrei dovuto “solo” affrontare ed elaborare il lutto. Quanto ho pianto per Tommy.
Mi sono sempre sentito in colpa verso Tommy per essermene andato di casa senza di lei.
Ho sempre avuto l’impressione che la sua malattia fosse dipesa dalla tristezza per il mio abbandono che certamente lei non poteva capire: lei non mi avrebbe mai abbandonato.
Adesso però so anche che la vecchia radio a valvole di mia madre, sulla quale Tommy passava molte ore al giorno perché era calda, oltre che calore emanava un forte campo magnetico cancerogeno e che questo, assieme al fatto di non aver mai avuto cuccioli pur non essendo sterilizzata, poteva averle fatto insorgere il tumore alle mammelle.
Ma purtroppo so anche quanto importanti siano le emozioni nello scatenare queste malattie perché dodici anni dopo quella di Tommy ho dovuto affrontare la morte per tumore di mio padre e so per certo che il fattore scatenante per lui era stata una forte e prolungata emozione negativa per un fatto che aveva minato la sua vita creandogli un forte senso di colpa.
Per caso dopo molti anni vidi in televisione il film “Le tre vite della gatta Tomasina“, prodotto proprio nel 1963, e mi ero commosso per la storia della gatta che era l’unica ragione di vita della bimba e che alla fine riesce a tornare a casa e a “guarire” la bimba (e il padre).
Il nome in inglese era Thomasina, ma un suo diminutivo poteva essere benissimo Tommy e all’inizio, quando si presenta, la gatta dice agli spettatori che subito l’avevano chiamata “Tom”, ma poi quando si erano conosciuti meglio avevano corretto il nome in Thomasina. Il film metteva in scena anche lo stesso errore nell’attribuire il sesso e il nome!
Questo film mi ha toccato, è sullo stesso filo di quel che è successo a me, ma come sempre i film Disney hanno un lieto fine che nella vita reale non c’è quasi mai.

Ringrazio ancora nel ricordo la gatta Tommy per il suo impagabile affetto che spesso mi ha letteralmente salvato, e per tutto quello che in quegli anni nessun altro ha fatto, e questa gatta ha fatto per me, semplicemente essendoci.