Chi sono
A chi somiglio? (il mio portato genetico)
Come sono (l’influenza dell’ambiente di vita e degli incontri)
Da dove vengo (tutto il resto sulle mie origini)
Chi sono
Arsenico e psora
rigido orale
un po’ schizoide e pantofolaio.
Lunatico e ipersensibile
sono troppo razionale
per il mio inquietante
sesto senso.
Sono ideologico
un fesso utopista
sovversivo conservatore
di valori umani dismessi.
Atipico misantropo
insegno a quei pochi
quel poco che so.
Il latte mi uccide
e nemmeno lavorare
mi fa molto bene.
Estremista del “giusto mezzo”
seguo il Tao
senza raggiungerlo
e applico troppo spesso
la legge di Murphy.
Sto invecchiando
A chi somiglio?
(il mio portato genetico)
Ma a chi somiglio?
Io non c’entravo niente con i miei genitori. Nella mia famiglia ero un alien come un emigrato lo era a Ellis Island. I miei non mi capivano e io non li capivo, proprio come se parlassimo lingue diverse.
Nemmeno nelle fattezze fisiche assomigliavo loro minimamente e ricordo che quando ero piccolino parenti e amici dei miei tentavano disperatamente il solito gioco delle somiglianze, non trovandone alcuna.
I miei mi dicevano, stizziti, che invece mio cugino somigliava tutto al bisnonno di una foto gelosamente conservata (e infatti da adulto è diventato praticamente un suo sosia), invece io più crescevo e meno somigliavo a qualche parente, seppure alla lontana, almeno di quelli conosciuti o di cui c’era la foto sulla lapide.
Mi dicevano spesso, con tono di rimprovero, di essere uguale come carattere “difficile” a un mio zio paterno che era però un bell’uomo e da giovane era stato molto affascinante, tanto da conquistare la bionda rampolla di una famiglia abbastanza ricca.
A ripensare ora al suo modo di fare, sicuramente lo zio in questione era un “neocorticale” come me, ma per il resto, purtroppo…, non gli somigliavo niente.
Un altro a cui mi avevano paragonato era un mio prozio morto molto giovane che non potendo fare lavori pesanti perché deboluccio e malaticcio era stato mandato a studiare e aveva anche imparato a suonare il violino; la finale del racconto era sempre la stessa: “poco tempo dopo essere diventato ragioniere, morì, così tutti i sacrifici e i soldi per farlo studiare furono buttati al vento”. Io ero piccolo e non sapevo ancora dove dovevo toccarmi per esorcizzare la sfiga.
Quando avevo sedici anni mio padre mi portò in pellegrinaggio alle tombe di famiglia e c’era anche il ragioniere violinista che in fondo mi incuriosiva, ma di fronte alla foto del defunto ventenne si vide con certezza che non gli somigliavo minimamente. Questo mi sollevò dalla paura di fare la stessa fine, ma mi lasciò privo anche dell’ultima speranza di somigliare a qualcuno della mia famiglia.
Inoltre questi possibili candidati alla somiglianza erano tutti molto belli e affascinanti, così rimanevo anche senza la speranza di evolvere in tal senso diventando adulto.
Infatti il mio profilo si fece sempre più mediorientale, i più benevoli dicevano giudeo.
Negli anni settanta, vedendo una serie di foto dell’India, mostrate dal classico amico che c’era appena stato, mi resi conto che somigliavo abbastanza a qualcuno di quelli fotografati, salvo che per la pelle che loro avevano più scura.
Mio padre era del Lago di Garda e con l’India difficilmente i suoi antenati avevano potuto aver qualcosa a che fare, ma avendo la madre originaria di un paese dell’entroterra veneziano potevo pure pensare a commistioni genetiche dovute alla navigazione, dato l’impiego come robuste braccia da remo dei contadini veneti sulle rotte dell’Oriente.
Mia sorella che da piccola somigliava molto a una vietnamita forse ne era una testimonianza: negli anni sessanta la gente spesso fermava mia madre e le diceva “che bella bambina! È stato difficile adottarla?”
Invece di me non chiedevano nulla, pensando evidentemente a delle storie di paternità diversa da quella ufficiale, che per discrezione era meglio non indagare…
Quindi mi rassegnai a questa versione dei fatti: ero frutto di una scheggia genetica impazzita uscita fuori per caso nella linea di discendenza di mia madre e somigliavo a quelli tra i più sfigati al mondo noti solo per “la fame in India”.
Senza saperlo mi ero avvicinato molto alle conoscenze che dovevano arrivarmi dopo molti anni.
Cercando di rimuovere tutto, non tenendo più conto di questa possibile somiglianza, da giovane uomo ne ho fatto le spese una volta che tornavo in nave da una vacanza in Grecia durante la quale mi ero abbronzato molto e dopo anni mi ero anche rasato la barba: allo sbarco a Venezia il poliziotto che guardava i documenti fece un cenno e fui fermato e portato da due altri poliziotti nell’ “ufficio” di dogana della nave dove chiesero via radio il controllo dei miei documenti; continuavano a guardarmi per vedere se quello della foto con la pelle bianca e la barba poteva c’entrare in qualche modo con quello che avevano di fronte. Io dissi le poche parole che riuscii in mia difesa con la pronuncia e l’inflessione più “veneziana” possibile e vidi che mi guardavano come adesso si guardano gli immigrati ghanesi che parlano in perfetto dialetto della bassa veronese.
Poi per fortuna arrivò la conferma dalla “centrale”: “lei è a posto, ci scusi” e io istintivamente pensai in risposta “sì buana”.
Così smisi di abbronzarmi d’estate e mi feci subito ricrescere la barba che metteva un po’ di soggezione.
Ogni decennio circa che ho accumulato di vita ho confrontato il mio viso con quello di parenti o con il loro ricordo fotografico, senza trovare somiglianze nemmeno andando avanti con l’età.
Ma allora a chi diavolo somiglio?
Veramente può uscire a un certo punto uno con le fattezze diverse da tutti i suoi parenti e magari uguali a quelle di uno che è vissuto chissà quanti anni prima e chissà dove?
Negli anni ottanta del novecento conobbi Marilinda, la mia attuale moglie, e la prima volta in assoluto che la vidi ebbi la netta impressione di rivedere una persona che avevo conosciuto bene, intimamente, ma non vedevo da moltissimi anni. Mi feci avanti tutto gasato da questa impressione come per dirle “ciao, dove sei stata tutto questo tempo?” ma ero sposato e lei, diffidente, mi allontanò garbatamente facendomi capire che non c’era trippa per gatti…
Ricordo perfettamente di esserci rimasto molto male e di aver pensato “non mi ha riconosciuto, devo essere un po’ cambiato”. Ma non ci eravamo veramente mai visti prima di allora.
Alla fine, dopo un paio d’anni di tentativi e dopo essermi separato dalla prima moglie, riuscii a entrare nelle sue grazie e a mettermi in coppia con lei così le spiegai cosa mi era successo la prima volta che l’avevo vista. Come risposta lei mi propose due verifiche: far fare la Carta del Cielo di Nascita di ciascuno e vedere come combaciavano gli aspetti legati alle vite precedenti e consultare sulla questione una cartomante da cui lei si recava ogni tanto e che reputava molto brava e seria.
Alla prova delle carte del cielo si vide qualcosa di strano, tanto che la sua collega astrologa che le aveva fatte interpellò la sua insegnante di astrologia karmica che volle venire a conoscerci non avendo mai visto due persone con simili aspetti astrali… secondo lei avevamo alcune vite in comune in passato che si erano interrotte bruscamente e per questo ci eravamo ritrovati.
Purtroppo la mia ora di nascita era sbagliata, e l’ho saputo solo trent’anni dopo, ma evidentemente come per le carte della cartomante anche la lettura delle carte del cielo di nascita è uno dei “media” di cui si servono le persone sensitive e recettive che riescono a leggere dentro gli altri, quindi la pista era giusta comunque.
Sebbene conoscessi i Tarocchi e ne possedessi anche un bel mazzo liberty, ero molto scettico sulla lettura delle carte che consideravo un po’ zingaresca e dalla cartomante non volevo assolutamente andare. Cedetti solo per amore, e adesso credo anche un po’ per curiosità, ma la signora mi stupì e mi sconvolse dicendomi cose della mia vita che non avevo raccontato ancora nemmeno alla mia nuova compagna, cose che non avevo detto a nessuno e quindi che la cartomante non poteva aver saputo dalle confidenze di altri. Mi disse anche che fino a pochi anni prima ero stato completamente inconsapevole della mia storia, ma che poi pian piano si stava diradando la nebbia che avevo dentro e cominciavo a ricordare e a capire; avevo scampato la morte poco prima dei diciotto anni e secondo la sua visione da allora ero come “rinato” per cui per l’esperienza interiore e la consapevolezza avevo 17 anni di meno della mia età anagrafica, perciò dovevo darmi da fare a ricordare per non trovarmi a sapere le cose quando ero già vecchio che allora non mi sarebbe servito più a molto.
Secondo l’amabile signora per capirci qualcosa nella storia degli incontri nelle vite precedenti dovevo cercare e rileggere i sogni che mi ero trascritto negli anni passati per vedere se c’erano allusioni alle mie vite precedenti che quando avevo fatto il sogno non avevo potuto cogliere non sapendo niente.
Mi guardava come incantata, chissà cosa vedeva nel mio passato, e nel mio futuro che però per fortuna non mi volle dire, dandomi solo dei consigli pratici su come affrontare il nuovo rapporto di coppia in prospettiva del fatto che era sicura di una sua lunga durata, e istruendomi su come cercare di scoprire le mie vite passate, sicura che avessi già incontrato in precedenza la mia compagna dal momento che lo aveva letto nelle carte che aveva fatto a lei.
Erano dei “compiti per casa” che avrei dovuto portarle, tornando da lei; sarebbe passato del tempo ma lei mi avrebbe messo tra le persone alle quali pensava regolarmente e mi avrebbe aspettato per aiutarmi a chiarire quanto fosse emerso.
Avevo forse trovato la persona che poteva rispondere alla domanda “a chi somiglio”, ma non lo aveva voluto fare. Voleva che riuscissi a rispondere da me.
Infatti la risposta mi arrivò lentamente ma travolgente. Iniziai a scorgerla mentre assistevo mio padre nei suoi ultimi giorni di vita e alla sua morte, di cui fui l’unico testimone.
Lì compresi che dovevo smettere di porre barriere scettiche come resistenze a questi discorsi perché in quel modo mi impedivo di capire; ma dovevo anche “prendere le cose per come sono e non per come le raccontano” facendo lo sforzo di filtrare con la ragione le credenze tradizionali, spesso viziate da superstizioni o deformazioni inaccettabili.
In quel periodo avevo maturato l’idea che alcune persone si potessero reincarnare per portare a termine compiti lasciati interrotti per una morte violenta e imprevista. Era un’idea frutto di molte letture. Credevo che quelli che non si reincarnavano per la maggior parte si “sciogliessero” nell’energia universale, mentre alcuni, per fortuna pochi, restassero legati all’ambiente dove erano vissuti, come per una condanna per dei grossi problemi che avevano lasciato irrisolti o per il male che avevano fatto: questi erano i cosiddetti “fantasmi” ed erano molto presenti nella letteratura e nei racconti delle persone. Io li chiamavo “entità” e cercavo di starne alla larga.
Qualche anno dopo ne parlai con la mia psicoterapeuta e la vidi molto scettica; le dissi cosa pensavo della reincarnazione, ma lei rimase scettica e questo suo atteggiamento mi convinse a ripensare al concetto rivedendone le basi. Cercai dei libri di antropologia e di archeologia per capire meglio quando e come avesse avuto origine l’idea della reincarnazione.
Lo studio più approfondito mi fece abbandonare l’idea e dar ragione allo scetticismo della mia terapeuta: si tratta di una credenza religiosa neolitica, o forse anche precedente, nata dall’osservazione delle piante annuali con la semina che corrispondeva alla sepoltura e la germogliazione che corrispondeva alla rinascita. Era una religione molto diffusa che era durata almeno una decina di millenni e alla fine, mescolandosi con altre visioni religiose, si era trasformata nelle credenze sulla reincarnazione che conosciamo ora.
Una efficace idea consolatoria rispetto alla certezza di morire, ma pur sempre una costruzione mentale, una proiezione sulle persone di quanto avveniva nella cosa più rivoluzionaria e entusiasmante che avevano all’epoca e cioè la coltivazione delle piante.
Allora recuperai la vecchia idea della linea genetica e mi dissi che se effettivamente nelle prove con i topi da laboratorio ogni tanto nasceva un topolino con le caratteristiche genetiche di un suo lontano predecessore, poteva essere successo anche a me, era forse la genetica recessiva che riaffiorava. Inoltre avevo letto che nelle famiglie importanti del passato, i cui componenti si facevano fare il ritratto, capitava di vedere somiglianze notevoli tra i discendenti a distanza di alcune generazioni.
Perciò mi convinsi che potevo davvero somigliare a un mio avo molto lontano nel tempo.
Per la teoria Bioenergetica di Reich e Lowen e per gli studi sui gemelli omozigoti, se il corpo è uguale sarà molto simile anche la psiche, trattandosi di una unità inscindibile corpo-mente. Quindi potevo avere accesso al ricordo di quel particolare antenato e di episodi della sua vita fissati come informazione nel mio DNA perché ero nato quasi uguale a lui di corpo, e solo per quello. Adesso la penso così.
Questa teoria mette d’accordo il fatto che si possano avere dei “ricordi” del passato di prima che nascessimo con il fatto che viviamo ciascuno una sola vita, non diversamente dagli altri animali. Spiega anche come sia stato possibile alla cartomante “vedere” le mie “vite passate” e come sia possibile per me percepire delle informazioni su altre persone che non conosco o su bambini anche molto piccoli, informazioni che, subito o a distanza di anni, mi sono sempre state confermate dal turbamento, dal cambiamento, dalle parole degli interessati o dall’evoluzione dei bambini proprio nella direzione da me vista come informazione dovuta alla “vita di un antenato”.
Le informazioni devono esserci da qualche parte, non ci sono magie, se si possono percepire è perché esistono. Questo vale anche per i luoghi: in qualche modo le informazioni più “forti” e quelle ripetute uguali per moltissimi anni si fissano e quindi possono essere percepite e decodificate come immagini di un “film” proiettato nella corteccia visiva del nostro cervello.
La faccia di quel mio antenato a cui somiglio, anzi di quei due vissuti in tempi molto distanti tra loro, mi è stata mostrata dal mio inconscio in sogno, in alcuni sogni fatti molti anni fa, che ho scritto e ricordato sempre in modo particolare. Mi sono affiorati anche particolari importanti della loro vita e della loro morte. Ho interrogato l’ I Ching, il Libro del Mutamento, sulla questione e ho avuto una risposta plausibile sul perché mi sia “ricordato” di questi miei antenati vissuti molti secoli fa e perché mi sia sentito così spinto, interiormente e dall’esterno, a continuare e approfondire questa ricerca. Perciò adesso sono abbastanza in pace con me stesso rispetto a chi assomiglio.
Sia in sogno che con la percezione attiva su di lei, mi sono arrivate immagini anche delle antenate di mia moglie con cui erano stati in relazione i miei antenati.
Ho capito i ruoli che ricoprivano, non so i nomi e posso solo ipotizzare i posti dove sono vissuti e vissute dai contesti visti in sogno, ma mi basta così.
Ci sono voluti più di vent’anni per arrivarci, perché naturalmente non ho potuto dedicare moltissimo tempo della mia vita a questa faccenda, ma l’ho mantenuta sempre tra i miei pensieri.
Dopo parecchi anni per caso mi trovai a parlare delle Canarie per via di amici che ci si erano trasferiti e ricordando che la “zona” di vita del mio antenato più antico era stata da quelle parti mi misi a guardare le isole su Maps controllando per l’ennesima volta col pendolo se qualcuna era quella dove era vissuto. Ma niente. Allora chiusi gli occhi e mi chiesi “ma dov’era quest’isola che non trovo?” eseguendo una scansione sulle otto direzioni della rosa dei venti a partire da Tenerife. Alla direzione nord mi venne chiarissimo il segnale. Scorsi la mappa verso nord e con mia sorpresa a un certo punto vidi un puntino con scritto “Funchal”, nome mai sentito prima. Allargai il puntino e vidi un’isola che non sapevo ci fosse: Madeira! ecco dove avevano vissuto i nostri antenati. Uno tsunami di proporzioni immani il cui ricordo mi era affiorato in un sogno doveva aver cancellato completamente ogni traccia di quella popolazione.
Questa ricerca ha prodotto di buono per me che per capire meglio i miei sogni e decodificare le mie percezioni sulle altre persone e sui luoghi ho letto molti libri di antropologia culturale sulle religioni antiche e le loro origini, sugli usi e costumi dei popoli antichi, dando così anche un senso alla mia passione per l’archeologia della preistoria che ho da quando in prima media vidi sul libro di Storia, alla paginetta dedicata alla civiltà minoica, l’immagine delle rovine di Knossos e pensai “appena posso ci devo andare, l’altra volta non ho fatto in tempo”…
(e 14 anni dopo ci sono andato… in agosto!)
Come sono
(l’influenza dell’ambiente di vita e degli incontri)
Per come sono adesso ringrazio di cuore i miei genitori per quello che mi hanno dato e insegnato e le altre persone che hanno percorso un tratto di strada con me unendo per un po’ di tempo la loro strada alla mia.
Sono nato primogenito in una casa del Lido vicina alla laguna da una madre sarta che lavorava per una boutique del Lido e da un padre maresciallo dell’aeronautica militare che lavorava all’aeroporto del Lido che ai tempi eral’aeroporto internazionale di Venezia. Mia madre proveniva da una famiglia contadina di Dolo, grosso centro agricolo tra Padova e Mestre, seconda di otto fratelli, a 14 anni dopo aver frequentato un corso e un apprendistato da sarta fu spedita al Lido a lavorare per i proprietari di una boutique di moda. Aveva 21 anni nel 1943 e andava a trovare i suoi a Dolo (20 km da Piazzale Roma-Venezia) a piedi o in bicicletta. Una volta i proprietari della boutique le diedero un lavoro diverso: portare delle pistole a loro amici partigiani nascosti in campagna vicino a Dolo; un’altra volta le dissero di aver saputo che il suo fratello rastrellato dai nazisti e renitente alla leva di Salò sarebbe stato deportato in Germania e lei doveva andare a dirlo a mio zio e agli altri richiusi nella caserma Matter perché scappassero; lei svolse anche questo compito e rischiò la vita una seconda volta. Mio zio con altri riuscì a fuggire e a nascondersi in campagna, ma mio nonno per questo venne arrestato dai fascisti e stette in prigione un anno, ma non svelò mai il nascondiglio. L’altro mio zio poco più vecchio nel frattempo era tornato a piedi dalla Germania scappando da un lavoro forzato e mandava avanti un po’ i campi, i lavori agricoli però erano svolti sostanzialmente quasi tutti dalle donne e dai bambini.
Gli alleati da parte loro con sommo disprezzo mitragliavano le campagne dagli aerei (chiamati popolarmente “pippo”) sparando su tutti quelli che vedevano e gettavano bombe su ogni luce che vedevano.
Mia madre al Lido era più tranquilla e al sicuro ma rischiava la vita per portare notizie, soldi e vestiti smessi ai suoi a Dolo che aiutavano un po’ tutti.
Alta e con un corpo celtico molto bello, dopo la guerra le venne chiesto anche di sfilare per la boutique ma lei non volle.
Era come me, era schiva, aveva paura, era una sensitiva terrorizzata da quel che percepiva, ma allo stesso tempo aveva un coraggio incredibile per una ragazza di vent’anni.
Alla fine della sua vita raccontò a mia moglie che quando aveva poco più di quattro anni era stata portata dall’esorcista, lì a Dolo. Giocava sempre con gli altri bambini della corte dove viveva (appena fuori Dolo) sotto la sorveglianza di una giovane zia, alla quale era molto legata, che era malaticcia e non poteva lavorare, così le facevano guardare i bambini. La sua zia morì, lei non sapeva dire di cosa, ma ai bambini fu detto che era andata via. Quando l’aveva rivista seduta dove stava sempre a sorvegliarli nei giochi era corsa felice da sua mamma a dirle che la zia era tornata! Per alcune volte sua mamma pensò al desiderio di una bambina di rivedere la zia alla quale voleva molto bene. Una volta però la zia le disse qualcosa, che non ricordava (o non voleva dire a mia moglie), lei corse a casa a dirlo ai suoi genitori, doveva essere qualcosa di importante che lei bambina non poteva sapere e sua mamma, che era molto religiosa nonostante fosse sposata con un socialista che aveva in odio i preti, lo raccontò al parroco il quale purtroppo la convinse a sottoporre la bambina all’esorcismo di un suo collega chiamato da Venezia.
Mia madre non raccontò a mia moglie in cosa consistette l’esorcismo ma le disse solo di esserne rimasta terrorizzata e traumatizzata per tutta la vita. Immagino come poteva star male vedendo in me bambino dei lievi segni di quella sua stessa dote da lei ereditata e che le avevano fatto credere diabolica. Io capii subito che non potevo dire niente e dai sette anni in poi non parlai più a nessuno, nemmeno a lei, di quel che mi succedeva e che sentivo. Nell’adolescenza poi la paura, trasmessami da mia madre in modo indiretto e allusivo, mi fece erigere una barricata contro la mia percettività extrasensoriale e decisi di non credere a niente di queste cose e che ci dovesse essere una spiegazione per tutti i fenomeni.
La barricata resse molti anni fino a che mi sentii più solido, più consapevole e meno pauroso, per cui a quel punto avevo la capacità di affrontare la mia realtà, compresa la sensitività. Avevo ormai trentacinque anni, tanto avevo assorbito la paura di mia madre fin da quando succhiavo il suo latte.
Mio padre era nato a Peschiera del Garda da una famiglia che aveva una grande cooperativa di pesca sul lago e seguiva gli insegnamenti di don Sturzo. Sua madre, mia nonna, era figlia di albergatori. Ma la famiglia di mio padre non aderì mai al partito fascista e ad un certo punto con questa scusa i gerarchi locali sequestrarono la cooperativa e li lasciarono senza mezzi, così da benestanti che erano prima, in quel periodo facevano fatica a “sbarcare il lunario”.
Mio padre rimase orfano a 6 anni e la sua sorella maggiore decise di aderire al partito per ottenere la condotta di uno sperduto ufficio postale a Moruri, sopra Montorio, nella collina di Verona. Con la condotta mia zia manteneva e ospitava anche mia nonna e mio padre, che dopo la scuola faceva il postino girando in bicicletta per le contrade superando salite improbe. Ma la zia un bel giorno si sposò e mio padre e mia nonna, sempre spesati dalla zia, dovettero andare ad abitare da un’altra parte trovando un piccolo alloggio in città vicino al Ponte Pietra. Compiuti i 18 anni mio padre decise di dover provvedere a se stesso e a sua madre e si arruolò volontario nell’aeronautica per le colonie in Africa. Venne spedito a Mogadiscio in Somalia. Dopo pochi anni di “bella vita” coloniale scoppiò la guerra e gli inglesi in pochi mesi conquistarono senza combattere tutte le guarnigioni italiane in Somalia: diceva “loro arrivavano con i carri armati e gli italiani avevano i moschetti della guerra del 15-18“. Fu portato in un enorme campo di prigionia in Kenya dove li utilizzavano per aprire strade nella giungla o per scavare nelle miniere di amianto dove nemmeno i neri volevano lavorare.
Dopo la fine della guerra il governo italiano faceva ogni tipo di resistenza contro l’intenzione degli inglesi di restituire i prigionieri di guerra dell’Africa che erano alcune centinaia di migliaia; dicevano che non c’erano soldi per questi ex combattenti e, senza scherzi, mio padre si fece così un anno e mezzo di prigionia in più venendo sbarcato a Napoli solo nel 1947.
Arrivato a Verona lavoro ce n’era davvero molto (purtroppo) nel “ramo” del trasporto delle macerie delle case fatte cadere dai nazisti e dagli americani, così mio padre si mise in società con un suo cugino di Peschiera che aveva un camioncino e lavorava sodo, ma il lavoro di spalare macerie era troppo duro per uno che aveva fatto sette anni di prigionia per quanto i campi degli inglesi non fossero certo come quelli nazisti. Gli inglesi davano ai prigionieri il minimo necessario di tutto e li facevano lavorare al massimo possibile, quindi mio padre era fisicamente sfatto e se ne andò in cerca di altro lavoro, entrando nuovamente nell’aeronautica militare appena aprirono i bandi per il riarruolamento. Fu inviato al Lido di Venezia alla torre di controllo. Si comprò una Topolino C e dopo qualche tempo conobbe mia madre che sposò nel 1951.
Il cugino a forza di macerie spalate e investimenti in edilizia divenne molto ricco, ma mio padre non rimpiangeva di essersene andato dalla società: diceva che lui se fosse rimasto a fare quel lavoro sarebbe comunque morto prima di farsi i soldi.
Per quei tempi i miei fecero un viaggio di nozze molto avventuroso andando a Napoli e in Sicilia fino a Palermo in treno.
A quei tempi la Sicilia era sinonimo di “bandito Giuliano” e andarci era visto come per la mia generazione andare a Sarajevo durante la guerra di Bosnia. Tutti li sconsigliarono in tutti i modi e loro, forse proprio per questo, ci andarono lo stesso e tornarono contenti senza aver avuto nessun problema e avendo speso abbastanza poco.
Al mio primo viaggio di nozze andai in Tunisia a vedere il lago salato Chott el Jerid e le zone di dune presahariane per avere almeno un lontano assaggio di quell’Africa di sabbia e dune che mi raccontava mio Padre.
Al secondo viaggio di nozze pensai a un viaggio on the road da Verona al Marocco in auto, senza prenotare niente, unendo le ferie col congedo matrimoniale e chiedendo come regali di nozze dei soldi per il viaggio, dato che abitavamo già insieme da cinque anni e avevamo tutto.
Avevo così riprodotto inconsapevolmente l’epico viaggio di nozze dei miei.
Mio padre avrebbe voluto aprire un negozio, non aveva l’animo da militare, ma la vita lo costrinse.
Quando a 57 anni fu mandato in pensione col riconoscimento degli anni di prigionia, rilevò un negozio di cartoleria e giocattoli e visse alcuni degli anni migliori della sua vita a contatto con i bambini delle scuole vicine al negozio che lo chiamavano “nonno”, dal momento che né io né mia sorella gli abbiamo mai fornito i nipotini che tanto avrebbe voluto.
Dichiarando quasi tutto quello che guadagnava dal negozio finì tra i primi tre contribuenti della categoria “cartolibrerie” del comune di Venezia e “Il Gazzettino” fece un articolo sottolineando malignamente l’anomalia, dato che negozi ben più grandi e con molti commessi dichiaravano meno. Così mio padre divenne famoso e si fece un sacco di clienti anche di altre zone della città. Lui si scusava dicendo che non voleva farsi pubblicità, ma veniva dal lavoro statale ed era abituato a pagare le tasse perciò gli era venuto spontaneo…
Questa essenzialmente è la mia origine familiare, mezzo veneziano del Lido e mezzo veronese, con una vita vissuta un po’ al Lido, un po’ a Verona, un po’ a Mestre e poi definitivamente a Verona.
E’ sempre Veneto, è vero, ma le due città agli opposti lati della regione sono molto diverse per opportunità, cultura e ambiente naturale e per me è stato un vero “pendolarismo mentale” spostarmi molte volte da una all’altra nei primi trent’anni di vita. Cambiava il dialetto, cambiavano gli usi e costumi, veniva regolarmente preso in giro a Venezia chi come me proveniva dalla “campagna” e a Verona chi come me veniva dalla laguna.
Mi è servito per aprire gli occhi prima, per vedere la vita con un raggio più ampio, per farmi diventare adulto velocemente.
Ma io sono così come sono anche per merito di alcuni incontri significativi con persone che, al di fuori della mia famiglia di origine, hanno percorso un tratto di strada con me negli anni.
Tratti di strada anche brevi che sono stati molto significativi per le mie scelte ai vari bivi che ho incontrato sul cammino, e sono stati tanto più importanti più ero giovane quando li percorrevo.
Molte di queste persone non le ho più riviste ma sono rimaste comunque nel mio cuore.
Ringrazio di cuore per quello che mi hanno dato e insegnato:
Walter J. conosciuto quando avevo 8 anni al Lido, mio primo grande amico;
Paola B. conosciuta quando avevo 11 anni al Lido, la sognatrice, mia prima dolce e intensa “cotta”;
Massimo V. conosciuto quando avevo 12 anni a Verona, che mi ha fatto conoscere e apprezzare la musica classica;
Paolo F. conosciuto quando avevo 12 anni a Verona, compagno di cinema e dei miei primi amori veronesi;
Edoardo A. conosciuto quando avevo 12 anni a Verona, che mi ha fatto capire come vivevano i figli dei “ricchi” e mi ha fatto partecipe di quel che aveva;
Carlo M., detto “don Carlo” curato della parrocchia poco più vecchio di me, conosciuto quando avevo 13 anni a Verona, che mi raccolse pur se non ero praticante;
il prof. Consolini … detto “il Ciocia”, professore di Inglese conosciuto quando avevo 14 anni al liceo “Messedaglia” di Verona che riuscì in un compito in classe a darmi 1 meno meno meno meno spiegandomi che aveva dovuto farlo perché non erano ammessi i voti negativi, ma alla fine mi aiutò perché aveva capito che capivo;
Lorenza B. conosciuta quando avevo 14 anni a Verona, compagna di scuola, esempio di ragazza bella, bionda, bravissima a scuola e molto sveglia e intelligente che mi aiutò molto al liceo quando rischiavo di farmi buttar fuori dalla scuola.
Fausto F. conosciuto quando avevo 15 anni a Verona, “compagno” di scuola e nella vita di quegli anni politicizzati;
Claudio C. conosciuto come “Gengi” quando avevo 16 anni a Verona, un duro dal cuore tenero;
Laura F. conosciuta quando avevo 16 anni a Verona, mia prima bella e folle compagna in amore, alla quale devo molto;
Raffaella P. conosciuta quando avevo 18 anni a Verona, amica molto più “grande” di me che mi ha fatto amare la poesia tanto da farmi provare a scriverla, e che ha mediato con mia madre quando me ne ero andato di casa;
Fulvio A. conosciuto quando avevo 18 anni a Verona, grafica e musica hi-fi, un altro giro di amici e una casa;
Andrea F. conosciuto quando avevo 19 anni a Verona, amico più vecchio di me che per me è stato “il maschile” che mi mancava e una casa dove dormire spesso a Verona;
Adriano P. conosciuto quando avevo 21 anni a Mestre, amico e compagno di anni per me molto difficili;
Daniele E. conosciuto quando avevo 22 anni a Mestre, un chimico che non ha sbagliato esperimenti ed è ancora lì;
Germana G. conosciuta quando avevo 22 anni a Siena, femminista che mi ha amato e mi ha cambiato la vita, che ho amato follemente, alla quale anche devo davvero molto;
Ornella F. conosciuta quando avevo 22 anni a Mestre, cara amica che vedo sempre volentieri nonostante la sua nuova vita in Toscana;
Francesco N. conosciuto quando avevo 23 anni a Mestre, che ha musicato due miei testi facendoli diventare vere canzoni;
Mariateresa P. conosciuta quando avevo 23 anni a Mestre, “Occhi di Pioggia” troppo uguale alla mia malinconia; ci siamo amati “mentalmente”.
Marina S. conosciuta quando avevo 24 anni a Mestre, un grande e tempestoso amore, la prima donna con cui ho convissuto, ma non eravamo fatti l’uno per l’altra;
Giorgio F. conosciuto quando avevo 26 anni a Mira (VE) al Servizio Civile, mi ha svelato i segreti della ceramica;
Sergio M. conosciuto quando avevo 26 anni a Mira al Servizio Civile, arte e anarchia;
Morena C. conosciuta quando avevo 30 anni a Verona, la mia maestra di cucina biologica;
Rita S. conosciuta quando avevo 30 anni a Verona, divenne la mia amica del cuore;
Marilinda R. conosciuta quando avevo 31 anni a Verona, o meglio “riconosciuta” per i suoi occhi particolari, mia cara compagna di vita e mia grande luce fino a oggi, a lei devo moltissimo per l’aiuto che mi ha sempre dato fin da quando mi ha raccolto con una casa vuota e due stracci;
Claudio S. conosciuto quando avevo 37 anni a Verona, che mi ha aperto la strada alla Bioarchitettura;
Adriano B.C. conosciuto quando avevo 40 anni a Verona, anima critica della mia scuola di pensiero;
Alessandro S. “il” dottore, conosciuto a Sanremo quando avevo 42 anni e stavo male, che mi ha salvato la vita con la sua medicina avveniristica e libera da interessi multinazionali;
Marino Z. e Daniela G. conosciuti quando avevo 42 anni a Pontremoli, coi quali ho iniziato l’avventura della geobiologia e dell’associazione GEA;
Giancarlo B. conosciuto quando avevo 43 anni a Reggio Emilia, ingegnere ma bioarchitetto e musicista, un caso unico;
Emilio D. G. sì proprio il grande fisico, conosciuto quando avevo 44 anni, che è riuscito a farmi capire qualcosa di Fisica Quantistica, ed è stata davvero un’impresa epica;
Roberto C. il “big professor”, 100 chili di sapienza, conosciuto quando avevo 44 anni, che mi ha aperto le porte della Geologia Percettiva e mi ha fatto fare passi decisivi nel formare la mia scuola di pensiero, pur non sopportando che io fossi vegetariano e che non mangiassi nemmeno i suoi prelibati formaggi;
Paola O. conosciuta quando avevo 48 anni a Bologna, il mio specchio e la guida dolce e ferma per tanti anni che mi ha fatto uscire dal buio della paura facendomi guardare in faccia l’alien che c’è dentro me e riducendone così potere e dimensione per fare un po’ di spazio alla mia vitalità.
Da questo calderone tra genitori, amici, mentori e amori è uscito quel che sono adesso nel bene e nel male. Ho ancora tanto da imparare e tanto da migliorare, ma intanto ringrazio di cuore chi mi ha portato fino a qui.
Da dove vengo?
(tutto il resto sulle mie origini)
Prima del 26 dicembre 2004 avevo un’idea molto vaga di cosa fosse uno tsunami. Ma in un sogno avevo visto un bambino che scappava con un adulto che chiamava papà ma non si comportava come se fosse veramente suo padre perché correva disperatamente lasciandolo indietro. Erano abbronzati, vestiti con un grosso perizoma di stoffa ripiegata e scalzi; scappavano correndo su per un declivio pieno di alberi verdi che era talmente in pendenza da rendere lenta e vana la loro corsa. Dietro un’enorme onda d’acqua che saliva, saliva, più in fretta di loro; ad un certo punto arrivava e li travolgeva.
Poi avevo visto dall’alto il Lido di Venezia, come in un volo turistico che ho fatto a otto anni, e lo vedevo sempre più vicino, come se stessi calando velocissimamente di quota, fino a vedere il tetto di una casa. Poi mi vidi bambino piccolo che sgambettavo in braccio a mia madre molto giovane. Un sogno molto forte.
Dopo molti anni ho ricostruito che il posto dello tsunami dovrebbe essere Madeira, possedimento portoghese nell’Atlantico a circa 600 chilometri a nordovest di Agadir sulla costa del Marocco. La descrizione del sogno corrisponde bene con le coste dell’isola.
Chissà da dove vengo veramente.
Però sono nato al Lido, un’altra isola, un posto perso, difficile da raggiungere, ma a suo modo molto più conosciuto nel mondo.
Il Lido di Venezia: il Festival del Cinema e l’Hotel Des Bains, quello di “Morte a Venezia” di Thomas Mann.
Vengo quindi dal Lido di Venezia.
Come tutti i posti di turismo il Lido aveva due vite ma sbilanciate: per due mesi era strapieno di gente, si vedevano moto e automobili di tutti i tipi, bar e ristoranti aperti dappertutto; per il resto dell’anno c’era un silenzio… si sentivano le onde infrangersi sulla riva, il verso forte dei gabbiani, le sirene delle navi che entravano in porto, o uscivano, con la nebbia.
Eravamo su una strisciolina di sabbia tra mare e laguna e a seconda del lato percorso vi erano due mondi diversi. D’estate tutto gravitava verso il lato mare, nelle altre stagioni questo lato era dimenticato o evitato e tutto gravitava sulle rive della laguna. Io abitavo sul lato mare dove per la maggior parte erano seconde case e non c’era gente.
Al Lido si andava tutti in bicicletta, auto non ce n’erano, c’erano invece gli autobus e le “filovie” con le “tiracche”.
Vento freddo o nebbione a scelta, che erano un borin che tagliava le orecchie oppure un caigo che lasciava neanche un paio di metri di visibilità, pericolosissimo perchè era pieno di canali ed era un niente finirci dentro se saliva che eri ancora in giro.
Come nella parte vecchia di Amsterdam, alcune vie del Lido infatti sono costeggiate da canali navigabili pieni di barche ormeggiate a esili passerelle e magri paletti.
Ci sono anche molti ponti e ai turisti piace molto. Io ricordo la fatica per superare i ponti con la mia biciclettina da bambino: erano le uniche salite che conoscevo, per il resto il massimo dei dislivelli naturali era dato dalla differenza di quota tra il pelo dell’acqua e la cima delle dune della spiaggia.
Dal piazzale Santa Maria Elisabetta dove si arriva da Venezia col vaporetto (el bateo) si prende il Viale Grande (mai saputo come si chiamasse veramente), lo si percorre tutto e si arriva sul mare traversando l’isola. Quando ero bambino, lì, prima dell’accesso alla spiaggia, c’era una vecchia fontana fatta a trifoglio, senza più getto d’acqua.
Se si gira a destra si trovano il Des Bains e l’Excelsior, i due alberghi vicini al Palazzo del Cinema dove vanno i divi; se si gira a sinistra si va alle spiagge più popolari, all’Ospedale al Mare e alla spiaggia libera di San Nicolò. Casa mia era a metà strada da lì verso l’ospedale. In fianco avevamo la villa dei Marzotto, enorme e con un parco enorme, utilizzata solo due mesi all’anno. Un buco nella rete di confine, coperto dalla siepe, permetteva, a chi come me lo conosceva, di passare dal giardino di casa mia al parco della villa, ed era un’impresa proibita e furtiva che in certe giornate di primavera non si poteva non fare.
Ero arrivato a sei anni in quella casa dopo aver abitato in altre tre: fino a un anno ero stato al Lido, poco lontano, verso la laguna, nella casa di via Francesco Duodo dove sono nato.
Poi la carriera di mio padre mi portò per quasi un altro anno a Chiavari in Liguria, per poi tornare a Venezia ma su un’isoletta più piccola, Sant’Andrea, la parte militare dell’isola de Le Vignole, coltivata a vigneti, posta di fronte a San Nicolò del Lido a delimitare da mille anni il canale di entrata e uscita dal porto di San Nicolò, e nel cinquecento l’architetto veronese Michele Sanmicheli vi aveva costruito il Forte di Sant’Andrea che ancora si vede passando in nave o dalla riva del Lido.
Dopo quattrocento anni quella zona era ancora demanio militare e mio padre, sottufficiale dell’aeronautica, era andato a abitarci in una casetta costruita durante la guerra come residenza degli ufficiali tedeschi, vicino agli scali degli idrovolanti, e a quei tempi vicina agli elicotteri dei finanzieri. Gli idrovolanti non c’erano più sostituiti dagli elicotteri e i miei vicini erano tutti militari di leva o di firma.
A Sant’Andrea ci si arrivava solo in barca, nessun collegamento di mezzi pubblici. L’area militare era disseminata di bunker, dove una volta tenevano le munizioni, e di garitte di guardia. Mio padre nella garitta più vicina ci aveva messo le galline e nel bunker ci teneva il vino.
I bunker erano coperti di terra e ci cresceva sopra la boscaglia così dall’alto non si vedevano, ma sopra avevano anche delle specie di camini di aerazione in cui un bambino poteva cadere e io ci provai regolarmente, per fortuna senza riuscirci del tutto.
Ho ancora il ricordo da quando avevo tre o quattro anni dello sgomento che mi dava la carlinga di coda di un aereo abbattuto che usciva dall’acqua a pochi metri dalla riva del canale degli idrovolanti; mio padre mi aveva detto che era un “pippo”, uno di quegli aerei “americani” che mitragliavano la gente. Per me nel 1956-57 era l’immagine dell’angoscia della guerra ancora presente. Non capivo, essendo così piccolo, come potevano gli americani, eroi dei miei giochi ai cow boys, mitragliare la gente a Venezia. Quando lo tolsero ne approfittai per rimuovere la questione irrisolta, e almeno potevo andare a fare il bagno senza quell’orrendo spettacolo davanti agli occhi. Sì perchè in quella zona della laguna a quei tempi si poteva ancora fare il bagno…
La cosa più facile che poteva succedere era cadere in acqua e io a quattro anni ci finii dritto dentro correndo con la bicicletta. Per fortuna, pur non sapendo nuotare, avevo un’acquaticità sufficiente a tenermi a galla, che mi ha salvato. Poco dopo il bambino più grande che era con me avvisò i miei e fui ripescato da mio padre assieme alla bicicletta.
Vengo anche da Sant’Andrea, dal dopoguerra e dall’acqua fredda che non mi volle ingoiare…
Nel 1959, compiuti i sei anni, dovevo andare alla scuola elementare al Lido e non potevamo più abitare nell’isoletta perchè col caigo non ci si poteva muovere e già per frequentare la scuola materna dalle suore, sempre al Lido, avevo dovuto andarci da solo, con la barca dei militari, un vecchio mototopo: venti minuti di paura e freddo, e qualche volta i due “barcaioli”, per il caigo fitto, arrivavano al Lido dopo più di un’oretta di navigazione “da palo a palo”, quello in poppa toccava con le mani un “palo”, una bricola, e quello a prua toccava la successiva, la barca era lunga abbastanza per passare agevolmente da una bricola all’altra e, come fossimo stati tutti ciechi, si andava così, trattenendo il respiro, finchè la prua toccava l’altra bricola e il barcaiolo gridava “pope!” (cioè “adesso tocca a te di poppa”). Se per caso la barca si fosse messa di angolo e non avesse preso la bricola successiva eravamo perduti, ci avrebbero trovati dopo molte ore al diradarsi della nebbia, ormai assiderati (la barca era scoperta e la gente stava seduta ai lati, io che ero piccolo per fortuna ero più basso dei bordi della barca). Ma la grande esperienza dei due “barcaioli” mi impedì di fare questa brutta fine. Mi attaccavo con una mano ad una sporgenza di legno della barca e con l’altra alla mano di un aviere al quale mia madre mi aveva raccomandato quando mi aveva imbarcato, ma io non conoscevo affatto, e chiudevo gli occhi per la paura e per il freddo. Quando arrivavo alla riva del Lido dove sbarcavo veniva a prendermi una vecchia suora vestita di nero che vista dal basso era tremenda, sembrava veramente la strega delle favole, così finivo di terrorizzarmi. Già avevo un carattere che si potrebbe definire da autistico non riuscito, e poi si chiedevano come mai passassi il mio tempo senza giocare con gli altri bambini, sempre da solo o dando da mangiare alle galline che le suore avevano in un recinto alla fine del cortile, dietro la scuola.
Vengo quindi anche dalla nebbia impenetrabile e surreale della Laguna che avevo dentro di me.
Quando era proprio brutto tempo, cioè tirava vento e acqua, mia madre mi teneva a casa, ma alla scuola elementare questo non sarebbe stato permesso, inoltre molto probabilmente anche mio padre ne aveva piene le scatole di fare quella vita per raggiungere l’aeroporto di San Nicolò, e lui faceva i turni così, spesso, andava e tornava di notte. Col caigo già non ci si vedeva niente alla mattina, figuriamoci di notte!
Così i miei, io e mia sorella trovammo casa al Lido, una villetta tardo-liberty con un bel giardino e l’orto, il piano di sopra, ex zona notte, occupato due mesi all’anno dai proprietari per le vacanze; il piano nostro, ex zona giorno con veranda di vetri colorati, era più di un sogno, c’erano perfino degli enormi termosifoni con le zampe di leone! La caldaia era a carbone, degli anni ’30, però scaldava dappertutto. Le stanze erano enormi, soprattutto per dei bambini, e mio padre per non farci avere freddo aveva rimesso in funzione in camera nostra la vecchia stufa a legna Becchi, di quelle di terracotta, che avevamo a Sant’Andrea.
Il passaggio dagli spazi per me “sconfinati” di Sant’Andrea agli spazi urbani del Lido fu mediato dall’avere un grande giardino con molti alberi. Per me bambino di sei anni poteva essere stato come un salto nel tempo.
Vengo anche dalle semivuote ville estive del Lido verso il Lungomare.
Per me bambino Venezia era il mercato di Rialto, le Mercerie e pochi altri posti dove mi portava mia madre per fare le spese. Non era una città ma ancora “la Serenissima” ed era sempre stata così, un fantasma in bianco e nero.
Al Lido non c’erano auto per dieci mesi all’anno, salvo qualche tassì. Alla tivù dei ragazzi vedevo dei vecchi telefilm americani in cui la gente viveva in villaggi più piccoli dei quartieri del Lido, in casette che sembravano poco meglio delle capanne degli stabilimenti balneari, ma avevano tutti delle auto enormi, così grandi che da noi non se n’erano mai viste!
A quei tempi invidiai moltissimo un mio compagno di classe i cui genitori avevano vinto un’automobile a un telequiz: era l’unico di noi alunni ad averne una.
In casa ero solo io a guardare le gare automobilistiche alla televisione. La televisione i miei l’avevano presa subito appena arredata la casa, per il Natale del 1959, forse per sentire un maggior collegamento col resto del mondo.
D’estate, mi facevo regalare dai figli dei proprietari, tutti più grandi e più ricchi, i loro fumetti di Michel Vaillant, un pilota di formula uno, e disegnavo sempre automobili stando per ore come uno scemo a fare il rumore del motore con la bocca: “bruuum, brummm” tanto che i miei si preoccupavano della mia salute mentale, ma la maestra li rassicurava che a scuola non lo facevo e andavo benino. In realtà soffrivo di una rara sindrome da mancanza di automobili, che nè i medici nè i genitori potevano comprendere.
Vengo incredibilmente anche dalla mancanza di automobili al Lido fuori stagione.
Al Lido andavo in giro a piedi o in bicicletta e avevo a disposizione un grande spazio, da San Nicolò a Punta Sabbioni. Per un adulto era una gabbia, ma per me, bambino di quei tempi, era una meravigliosa estensione del mio giardino, da percorrere in bicicletta con i miei, in brevi scampagnate nei giorni di festa in cui mio padre non era di turno.
Da solo andavo al massimo alla spiaggia a vedere il mare ed era già una cosa proibita.
Il mare lo vedevo anche dalla finestra di casa, ma in primavera a volte mi prendeva una malinconia, un senso di struggimento e solitudine interiore che non capivo, allora prendevo la bici e andavo sulla spiaggia dove regolarmente tirava un borin tremendo e non c’era nessuno. Stavo lì un po’ cercando con gli occhi i posti dove si andava con l’ombrellone d’estate, posti che fuori stagione cambiavano aspetto e assumevano un fascino molto particolare. Un po’ sinistro.
Per un po’ assaporavo l’idea di essere da solo, in completa solitudine, solo con la spiaggia, il vento e il mare, poi mi spaventavo di questa sensazione e tornavo di corsa verso casa.
Vengo dal mare del Lido, mare invernale, scuro, che mi è entrato dentro nel profondo.
Un giorno i miei mi annunciarono che dovevamo trasferirci a Verona. Io ero disperato e dall’altra parte mi faceva voglia andare a vivere nella “grande città moderna” perchè stavo crescendo negli anni sessanta e c’erano dei fermenti che già percepivo, ma al Lido non vedevo la possibilità di coglierli. Alla fine prevalse l’euforia: una nuova vita! In un posto pieno di automobili, dove c’è un sacco di gente!
Ma io ero da solo, mi vivevo già da solo, la mia famiglia affettivamente per me non esisteva più e avevo appena undici anni. Unico affetto: la mia gatta Tommy.
Così vengo anche da Verona e dalla mia solitudine.