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Jones, il gatto del film “Alien”, e l’etica della cura

Il gatto è il figlio immaginario ideale, senza Padre, senza Legge. E’ come se queste parole fossero uscite magicamente dal mio immaginario. Cito l’articolo di Anna Mannucci perché condivido le considerazioni sul film, da me sempre molto apprezzato, e mi piace molto l’originale punto di vista “femminile” con cui l’autrice lo guarda ponendo al centro il gatto Jones. Inoltre l’autrice lo dedica al suo gatto, cosa rara che ho molto apprezzato.
E se al centro di Alien (Ridley Scott, 1979) ci fosse Jones, il bellissimo gatto rosso?
il gatto significa amore, accudimento, etica della cura (in questo film ma non solo). (1)
Troppo facile, troppo scontato, vedere l’animale e l’animalità in Alien, ovvero l’Alieno, il Mostro, l’Altro, il Diverso e così via.
Più interessante vedere l’animalità nella donna, nella maternità e nei gatti.

In una delle prime scene, subito dopo il risveglio, gli astronauti fanno colazione e con loro mangia il gatto. È sul tavolo, non sul pavimento, a fianco di Sigourney Weaver, la tenente Ellen Ripley, e, inquadrato di spalle, è uno tra i primi commensali a comparire sullo schermo. Rosso com’è, non lo si può non definire come la ciliegina sulla torta, che sottolinea l’atmosfera quasi casalinga, poco eroica e persino poco avventurosa – perlomeno all’inizio – di questo viaggio. Analogo l’atteggiamento, assai poco eroico e molto da vita quotidiana, dell’equipaggio, composto da sette persone, di cui un nero e due donne. Donne caratterizzate dal loro ruolo professionale e non dall’essere fidanzate o mogli di qualcuno; donne che non sono mai seduttive. Usando un luogo comune femminista, si potrebbe schematizzare dicendo che non sono oggetti, ma soggetti. Il bello del politically correct! (2)
I primi discorsi che si sentono, appunto a tavola, durante la colazione, sono di tipo sindacal-rivendicativo: i due tecnici, addetti alla manutenzione, vorrebbero un aumento della gratifica, sono lavoratori che protestano. I viaggi spaziali, nel futuro immaginato da questo film, si sono massificati, sono diventati normalità, e i marinai spaziali si sono proletarizzati. L’astronave da carico Nostromo, di ritorno verso la Terra da chissà quale pianeta, trasporta carburante greggio, non ha scopi scientifici e non deve conquistare niente, è una sorta di grande camion spaziale senza lustro né ambizioni. E pensare che nel 1979 erano passati soltanto dieci anni dall’allunaggio, dallo storico e glorioso sbarco dell’uomo sulla Luna. “Uomo”, perché non c’era nessuna donna sull’Apollo 11, anche se nel 1963 i russi avevano già mandato con successo una donna nello spazio, Valentina Vladimirovna Tereškova, preceduta, nel 1957, dalla cagnetta Laika e da vari altri cani, cagne, sacrificati in nome della scienza. Donne e animali, collegati anche nello Spazio.
Torniamo sulla Nostromo. I suoi marinai sono stati svegliati dal loro letargo tecnologicamente accudito, prima del previsto rientro sulla Terra, dal computer di bordo che non a caso si chiama Mother.
Dormivano in moderne culle, o forse bare, disposte a petali di fiore, quasi nudi, coperti solo da una sorta di candido pannolino da neonati. Mother, che avrebbe dovuto proteggerli, ha interrotto il loro sonno perché, seguendo un misterioso messaggio che ha ricevuto, si rechino su un pianeta. Qui trovano un enorme relitto alieno, il cui interno mostruoso, però, ha un’apparenza organica (l’incontro/scontro tra organico e inorganico è uno dei tanti e suggestivi temi di Alien). È una grande caverna minerale, ma calda, una sorta di nido contenente infinite gigantesche ovaie con gigantesche uova, alcune delle quali pulsanti. Pulsanti di vita, vita mostruosa, certo, ma “ogni scarafone è bello a mamma sua”, tanto più che questa madre appare come un’ape regina o qualcosa di simile. È una delle tante madri che vuole e deve riprodursi, a tutti i costi, a spese di chiunque (come tutte le madri).

La Madre è il Mostro. Oltretutto, cosa c’è di più animalesco della maternità?
Da un ovulo schizzerà fuori dunque un essere ripugnante che si attaccherà alla visiera del casco di Kane, uno degli astronauti, forandola e penetrando l’uomo. È una fecondazione violenta, con cui l’essere orribile inserirà dentro Kane, attraverso la bocca, il proprio “figlio”, appunto Alien. Una forma di parassitaggio, realmente diffusa in molte specie di insetti che inseriscono le proprie uova nel corpo vivo di un altro insetto, dopo averlo paralizzato, per fornire alla prole in crescita il necessario nutrimento, carne fresca, viva. Morte necessaria per riprodurre vita. Ma il parto maschile, si sa, è impossibile, e Alien per uscire dal corpo di Kane lo dovrà aprire, rompere, spaccandolo, in una scena rimasta memorabile. (3) Adesso, i marinai spaziali possono capire che cosa era successo a una grande carcassa rinsecchita che avevano visto sul pianeta delle uova: le sue costole erano aperte verso l’esterno perché qualcuno ne era uscito sfondando la gabbia toracica.
Il disgraziato parto maschile succede quando l’equipaggio è a tavola, un’altra occasione conviviale e inizialmente allegra. Il neonato sanguinolento che fa capolino dal torace squarciato dell’astronauta è, ovviamente, disgustoso e spaventoso, e anche molto fallico. Nasce un maschio, cattivissimo, un po’ animalesco – scappa via come fosse un serpente, o forse una lucertolona, quasi buffo – e un po’ tecnologico, la sua biochimica è basata sul silicio anziché sul carbonio (e chissà che cosa significa ciò…) e nelle sue vene scorre un acido corrosivo. In pochissimo tempo, forse 24 ore, diventa enorme, ma lo si vede sempre a pezzi, a spizzichi, che turbano l’immaginazione e che suscitano ancora più spavento, parti mostruose che fanno intuire una totalità ancora più temibile e mostruosa. Solo alla fine del film si vedrà intero l’alieno, che inaspettatamente, a questo punto, appare quasi antropomorfo, diverso da come lo si aspettava. Alien dunque scappa e si nasconde nelle viscere della nave, viscere dove si gioca ancora una volta la contraddizione, ma anche la fusione, tra organico e inorganico. Tubi neri come le parti del mostro, caldaie pulsanti, catene inquietanti, sgocciolamenti ambigui, forse umidità, forse saliva, forse qualche secrezione ancora peggiore. Alien si nasconde come un animale, in interni scuri e minacciosi dove si mimetizza, un animale perseguitato e che tutti vogliono uccidere. “Gli animali hanno paura del fuoco”, dice a un certo punto qualcuno, cercando di stanare il mostro con delle torce accese.
Ma in questo caso i braccati, quelli senza scampo, sono gli esseri umani. Brett, uno dei due tecnici “sindacalizzati”, è il primo a essere ammazzato dall’alieno, mentre sta cercando il gatto. Da questo, forse, l’impressione di alcuni che Jones fosse complice del mostro. Cerca il gatto chiamandolo ripetutamente, “Jones, micio micio”, “Micio micio, qui”, e si addentra imprudentemente nelle viscere sempre più strane e fantasiose della nave, continuando con il suo richiamo fuori luogo. Non sa che l’Alieno è già cresciuto spaventosamente (gli spettatori invece già se lo immaginano). In seguito, in breve tempo, gli altri membri dell’equipaggio verranno uccisi dal Mostro in modi terribili. Tranne la tenente Ripley. Che a questo punto innesta il meccanismo di autodistruzione del Nostromo e si avvia verso la navetta di emergenza. Ma quando si ricorda di Jones cerca di fermare il dispositivo. Non ci riesce, ma comunque torna indietro a cercare il gatto. Rischia la sua vita per salvare il gatto. Ed è per questo che si salva. Perché “Chi salva una vita salva il mondo intero”, una citazione del Talmud che, a quanto so, si riferiva soltanto agli umani, ma che vale anche per i non umani. Solo chi si occupa, si preoccupa, si prende cura anche degli altri merita la salvezza. Nella navetta, però, si è nascosto il Mostro e ancora una volta Ripley dovrà affrontarlo. Vincerà e in una delle ultimissime scene l’Alieno verrà espulso e il portellone, chiudendosi, taglierà l’ultimo legame che aveva con la nave, precipitandolo nello spazio.
Forse è un po’ forzata, questa interpretazione, ma, tornando sul materno, si potrebbe vedere in questo il taglio del cordone ombelicale. Non si sa, però, se si tratta di nascita o morte, per Alien.
Ripley non è una madre mostro, come quella del pianeta delle uova e come tante altre. Lei, a rischio della sua vita, vuole salvare Jones, che non ha in comune con lei nessun gene. Non cerca, egoisticamente, di salvare i suoi geni, la sua discendenza, insomma suo figlio, ma un gatto, un essere con cui non ha rapporti di parentela, un essere di altra specie. E questo significa generosità e altruismo. (4)
Certo, il gatto, come altri pets, può essere una rappresentazione, un simbolo, filiale, in quanto piccola creatura da accudire, ma non è un vero figlio, forse è un “figlio della notte” (5), un figlio/a fantastico, ma figlio/a di libertà, non del condizionamento genetico.
Sigourney Weaver si è scontrata con la Madre Mostro, la mamma di Alien, e con Mother, il computer di bordo, e ha vinto perché lei è una madre putativa, che va oltre le sue ovaie.
Sigourney Weaver, la tenente Ripley, è bellissima, oltre che forte e coraggiosa, ed è una delle prime eroine della fantascienza. Che possa essere considerata addirittura femminista?
Una figura memorabile, che verrà ripresa, sempre con la medesima attrice, nei sequel di Alien (Aliens. Scontro finale, Alien3 e Alien: la clonazione). Abbiamo tralasciato il ruolo dello scienziato, ovviamente cattivo, non abbiamo parlato della fantasia di H.R. Giger (6), della colonna sonora, dei tanti che hanno lavorato al film e di molto altro. Ma abbiamo dato il posto che meritava al gatto Jones (che, a quanto si dice, è stato interpretato da tre attori).”
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Note:

1) Sull’etica della cura, in contrapposizione o forse a completamento dell’etica dei diritti, un testo fondamentale è Hans Jonas Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, curato da Pier Paolo Portinaro, Biblioteca Einaudi 1990 e 2002, (Das Prinzip Verantwortung, 1979). Un altro testo importante è quello della psicologa Carol Gilligan Con voce di donna Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987. L’etica della cura è stata ripresa e approfondita dalle “femministe”, dal pensiero della differenza, nei Gender Studies, in relazione all’etica ambientale e ai temi bioetici. La bibliografia è sterminata. Tra le italiane, Battaglia, Luisella, “La voce femminile in bioetica. Pensiero della differenza ed etica della cura”, in Stefano Rodotà, a cura di, Questioni di bioetica, Editori Laterza, Bari-Roma 1993. Alcuni libri classici, per questo tipo di discussione:
Carol J. Adams, The Sexual Politics of Meat: a Feminist Vegetarian Critical History, 1990; ripubblicato con nuova introduzione da Continuum, New York, 2010
Animals and Women: Feminist Theoretical Explorations, anthology edited by Carol J. Adams e Josephine Donovan
Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, Presentazione di Elisabetta Donini, Garzanti, Milano 1988.

2) in questo film, però, gli astronauti fumano, persino a tavola. Atteggiamento assai poco corretto. Non capisco se ciò sia cosa normale, all’epoca, o ulteriore segno di proletarizzazione. Nella cultura americana degli ultimi decenni, chi fuma è una persona di scarso livello sociale, di scarso successo. Ma non so che cosa potesse significare nel 1979.

3) un’analoga scena è ripresa, con protagonista lo stesso attore, John Hurt, nel film parodistico Balle spaziali di Mel Brooks.

4) Nel secondo film della serie, Aliens (1986, James Cameron) Ripley salva una bambina. Un salvataggio un po’ più scontato di quello del gatto, anche se, ancora una volta, la bambina non è sua figlia o parente. In questo film lo scontro tra Madri è esplicito, c’è pure un vero duello, e dunque meno interessante.

5) Nel libro di Silvia Vegetti Finzi Il bambino della notte (Mondadori, Milano, 1990) alcune bambine raccontano di gravidanze da cui nascono appunto gattini e della loro pancia come rifugio per tanti piccoli animaletti. Secondo me, il gatto è il figlio immaginario ideale, senza Padre, senza Legge.

6) www.hrgiger.com

by Anna Mannucci
RIPLEY E L’ETICA DELLA CURA NEL FILM “ALIEN” – ad Alien, il gatto dagli occhi magici, 1988-2002 – Articolo di Anna Mannucci, pubblicato originariamente con il titolo “Ripley e l’etica della cura” sulla rivista Diogene, 25 dicembre 2011